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La casa sottosopra. Riflessioni sul potenziamento e depotenziamento di un luogo

di LUCIA TURCO



La casa è il riposo, i buoni sentimenti, quattro mura dentro cui nessuno ti può vedere. Zohra, autunno 2018, quartiere di Al Aouama, periferia di Tangeri. La casa è sotra, termine in dialetto marocchino che vuol dire “nascondersi dallo sguardo altrui”, o raha, “riposo”. In casa ci nascondiamo dalla nostra povertà.


Nei miei quattro anni di residenza in Marocco, chiara ai miei sensi s’è rivelata la comunanza di un’identità femminile mediterranea: usi e luoghi prediletti dalle donne marocchine, al pari di usi e luoghi della mia infanzia nel sud Italia. La casa, l’abitarla.

Essa rappresenta e in essa si realizza la possibilità di una distanza, dall’altro, dall’esterno e al contempo di vicinanza a noi stesse. L’hijab che ricopre il capo, lo trovo spesso fissato con nodi e mollette alle grate delle finestre nelle stanze delle mie amiche di Tangeri: quartieri popolari dove strette vie separano file di case non più alte di tre piani. L’intimità è un valore da tutelare. Nascoste allo sguardo esterno, ci si può svelare, arrivare con la punta delle dita sino alla radice dei capelli e con la bocca pronunciare le parole haram.

Nel sud Italia non si varca la soglia di una casa sottosopra, “Non venire! Non guardare! Che la casa è tutta sottosopra!”. Ricordo costante della mia infanzia e adolescenza: in ogni momento della giornata, vi è una donna che va a sistemare la casa sottosopra. Le immaginavo, queste donne, pulire sul pulito: mia nonna e i “servizi” mattutini, spazzare e lavare pavimenti di sale sempre chiuse e passare la cera sulle piastrelle del lungo corridoio; oppure le immaginavo nell’agio del proprio disordine, fingere il dovere per godere di un tempo proprio.


E sono già milioni di anni che le donne stanno sedute in queste stanze sicché ormai persino le pareti sono pervase della loro forza creativa, la quale infatti eccede talmente la capacità dei mattoni e della malta che necessariamente finisce per attaccarsi alle penne, ai pennelli, agli affari, alla politica. [Woolf, Una stanza tutta per sé]

La casa parla il linguaggio dell’intimità; descritta da Bachelard come nido, nascosto tra le fronde degli alberi in primavera, è poi rivelata in autunno, col cadere delle foglie secche e, al contempo, guscio nel quale ritirarsi e proteggersi dai pericoli dell’esterno (Bachelard, La poétique de l’espace). Ma se la nostra casa è una conquille, ciò significa che la portiamo addosso e accompagna il nostro percorso; cresce al crescere della nostra dimensione interiore, si arricchisce di ricordi, di appunti presi di fretta durante le nostre giornate. Tracce. Tracce dei nostri vissuti e ad ogni giro su noi stesse, costruiamo una nuovo percorso e apriamo un nuovo spazio:


C’est en roulant sur lui même que le limaçon a fabriqué son ‘escalier’. Ansi, toute la maison de l’escargot serait une cage d’escalier. A chaque contorsion l’animal mou fait une marche de son escalier en colimaçon. Il se contorsionne pour avancer et grandir. L’oiseau faisant son nid se contentait de tourner (p. 120).

Una relazione in potenza quella tra la donna mediterranea e la casa. Tano d’Amico riuscì negli anni 70 ad imprimerla su pellicola fotografica.


Zetaesse. Lucia Turco. La casa sottosopra, riflessioni sul potenziamento e depotenziamento di un luogo
Tano D'Amico, "L'eterna lotta dei senza casa"

Sull’altra sponda del mediterraneo, dove il neoliberismo s’abbatte con violenza sulla dimensione del domestico e della cura a vantaggio di processi di gentrification e displacement (Portelli e Lees Eviction and Displacement from the Neighbourhood of Douar Wasti in Casablanca, Morocco) le donne restano in prima fila durante gli sgomberi coatti, come avveniva due anni fa nelle bidonville di Casablanca.


Zetaesse. Lucia Turco. La casa sottosopra, riflessioni sul potenziamento e depotenziamento di un luogo
Sgombero della bidonville di Douar Wasti, Casablanca, 2018

Il legame tra la casa e la lotta può assumere conformazioni multiple: da una pratica di boicottaggio della luce, e le attività domestiche che s’arrestano e si rallentano, al costruire una casa in plastica e cartone durante i presidi operai a Tangeri o tra le montagne della val Susa.



Zetaesse. Lucia Turco. La casa sottosopra, riflessioni sul potenziamento e depotenziamento di un luogo
Presidio della protesta delle operaie di Manufacturing Textile, Tangeri, 2013

Zetaesse. Lucia Turco. La casa sottosopra, riflessioni sul potenziamento e depotenziamento di un luogo
Baita-presidio della Libera Repubblica della Maddalena, Val Clarea, sgomberata il 27 giugno 2011

Ma la ragione della dimensione politica della casa non si risolve in una reazione ad un attacco esterno, ma scava in profondità sino a rivelare lo spazio domestico quale origine occultata del diritto politico (Pateman, The sexual contract). Nella classica divisione tra sfera pubblica e sfera privata, Carol Pateman insegna come solo una parte di quest’ultima venne intesa come società civile, ossia la sfera delle relazioni volontarie tra privati individui. La sfera privata intesa come sfera domestica resta separata, messa all’angolo, dimenticata […] cosicché il “privato” si sposta nel mondo civile e nella divisione […] tra il privato, economia capitalistica o impresa privata, e il pubblico, ovvero lo Stato (18). Il termine “civile” non viene più riferito all’intera società ma soltanto a una delle sue parti, la quale andrà quindi a determinare quella che Habermas definisce sfera pubblica, da intendere come una sfera di privati riuniti come pubblico, una sfera privatizzata ma pubblicamente rilevante (Habermas, Storia e critica dell’ opinione pubblica). Le donne, seppur non dispongano delle caratteristiche necessarie a renderle “individui” e non possano dunque stipulare un “patto” tra eguali, non restano escluse (e dunque lasciate nello stato di natura) ma incorporate in una sfera che, rispetto alla società civile, si trova contemporaneamente dentro e fuori (Pateman). Secondo Pateman questo accade attraverso uno specifico dispositivo, che è il contratto matrimoniale necessario non solo per mettere in luce la differenza tra lo Stato assoluto del Padre e il nuovo patto fraterno che, al contrario del primo, prevede la libertà individuale per tutti attraverso la stipula del contratto sociale, ma soprattutto per mantenere il privilegio di ciò che l’autrice afferma essere la base reale del potere patriarcale, ossia la relazione tra moglie e marito. Il diritto paterno è infatti solo una delle dimensioni del potere patriarcale e non quella originaria. Il potere di un uomo in quanto padre deriva dal diritto patriarcale dell’uomo sulla donna. Per non perdere il diritto patriarcale originario, allora, i contrattualisti hanno legiferato il diritto sessuale e gli hanno dato nuova forma contrattuale. Quello che denuncia l’autrice è dunque l’inesistenza del racconto della vera origine del diritto politico poiché tutte le argomentazioni sul diritto politico originario iniziano dopo la nascita del figlio che rende l’uomo padre e ignorano che il potere del padre dipende dal precedente potere sulla donna e dal rapporto sessuale tra i due da cui deriva il concepimento del figlio. È cosi che l’uomo ha potuto creare una società di eguali in nome dello spostamento dell’ordine patriarcale all’interno di una sfera privata di cui quella società e gli eguali non si fanno tutore, ma ne vestono, al contrario, i panni del padrone di casa. Non avevano previsto che la casa, proprio in quanto spazio d’interiorità, avrebbe da sé riabilitato il suo ruolo di luogo politico. Ma cosa accade quando questo spazio d’interiorità è violato? Quando la società di massa non solo distrugge la sfera pubblica, ma anche quella privata, priva gli uomini non solo del loro posto nel mondo ma anche della loro dimora privata, dove una volta si sentivano al riparo dal mondo (Arendt, Vita Activa. La condizione umana)? La casa è oggi nuovamente attaccata, è esposta, è obbligata. Una quarantena che ci ha costrette ad una dimora e una convivenza forzate. Nel ridotto spazio dei nostri domicili si è venuta a concentrare tutta la nostra vita e siamo state obbligate a dividere lo spazio con chi eravamo solite dividere il tempo. La didattica a distanza ne è uno degli esempi più lampanti. La scuola, il luogo dell’incontro e della crescita attraverso pratiche di relazione, è divenuta parte di uno spazio d’interiorità e di riposo. Ridotte a sfondo di una webcam, realizzano i disegni dei romanzi distopici: le case delle città-bioma, obbligatoriamente senza tracce d’individualità, narrate da Elena G. Mirabelli in Configurazione Tundra, sono quelle a cui i protocolli universitari ci obbligano attraverso le nuove modalità d’esame in remoto; un metroquadro con muri bianchi di sfondo, assenza di tracce “escrementali”, come direbbero gli odoniani de “I reietti dell’altro pianeta”, di Ursula K. Le Guin. Ma se da una parte ci ritroviamo costrette a crear degli spazi di anonimato all’interno dei nostri luoghi, dall’altra alcuni docenti impongono che venga visualizzata l’intera stanza al fine di verificare l’assenza di appunti sul tavolo o ai muri. Mostrare la casa sottosopra. E mostrare la propria ricchezza e la propria povertà: da sfondi di benessere ostentati ad uno schermo nero di chi non possiede un supporto tecnologico atto a sostenere un tal movimento di dati.

La casa sottosopra diviene allora confinamento obbligato e viene al contempo svelata, violentemente esposta allo sguardo altrui. C’è un’invasione in corso e su questo non c’è più dubbio. The world-in-the home, the home-in-the-world (Bhabha, The World and The Home), generalizza l’esperienza postcoloniale che Bhabha definisce Unhome, laddove il prefisso “un” è da intendere come strumento d’oppressione. La casa depotenziata poiché non più luogo scelto di specifiche soggettività ma luogo obbligato di soggetti conviventi e ridotta a fonte per la raccolta dati di multinazionali del marketing. Da sfondo per le pubblicità consumistiche degli anni del boom economico, di donne in grembiule contente del possesso dell’ultimo elettrodomestico, a set per aperitivi virtuali di gruppi di ventenni glitterrati e ben vestiti, è bastata la distanza della dimensione di un virus.


Quando il mondo si comprime e il remoto si congiunge al vicino, il non domestico al domestico, si scatena la repressione che perseguita e infrange ogni rappresentazione della casa, della cultura, del sé (Chambers, Sulla soglia del mondo. L’altrove dell’Occidente).

Immagino allora un’avanguardia di donne mediterranee che si (ri)situino nei luoghi in potenza che sono loro storicamente e culturalmente propri, poiché non riuscire a proteggere il luogo del domestico da minacce parallele di confinamento e spettacolarizzazione, sarà il segno di una nuova, storica sconfitta.





*LUCIA TURCO

Dottora in Studi Internazionali presso l’Università l’Orientale di Napoli e in Sociologia presso l’Università Aix-Marseille, si interessa di linguaggi e traduzioni. In un percorso di recupero dei saperi delle donne mediterranee, è finita a vivere in campagna per tradurli in azioni.

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