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Partiture e intrecci. Intervista con Saverio Tesolato (Autunna et sa Rose)

a cura di DIEGO FERRANTE



Zetaesse. Diego Ferrante, intervista con Saverio Tesolato (Autunna et sa Rose)

Il progetto Autunna et sa Rose nasce nel 1994 e al suo interno la musica, la poesia, le arti visive confluiscono in un’idea di teatro come «arte totale». In altre occasioni hai raccontato di un’opera unitaria dalle forme molteplici. Quali sono i tuoi punti di riferimento nel perseguire questo tentativo di sintesi e analogia dei vari linguaggi artistici?


Ho volutamente connotato il progetto Autunna et sa Rose con il termine teatromusica, quella combinazione artistica che per me rappresenta la sintesi più naturale e al tempo stesso complessa ed elaborata per esprimere compiutamente le emozioni. Il progetto si colloca quindi all’interno di una tradizione assai prodiga, in cui la musica acquista la funzione di "plasma emozionale", una sorta di contenitore privilegiato di un coacervo di impulsi e idee più spesso facenti riferimento alla teatralizzazione "imposta" dalla parte testuale, la quale ha quasi sempre rappresentato il fondamentale incipit creativo.

Reputo che proprio il teatro incarni la sintesi vera di tutte le forme d’arte, in un’ideale Gesamtkunstwerk (l’opera d’arte totale di secessionista memoria): in scena si giunge allora a vivere una sorta di drammatizzazione multiespressiva avente l’obiettivo di fare fuoriuscire le proprie ansie, le proprie gioie sepolte e portarne a galla la forza in esse intrinseca e latente. Mettere in scena, a nudo, il proprio cuore, in sostanza.

Mi ritengo non per nulla un ammiratore incondizionato di Tadeusz Kantor, così come di Carmelo Bene, ma, sopra ogni altro, di Antonin Artaud. Il suo approccio dionisiaco al teatro è stato infatti fin dall’inizio per me fonte di essenziale ispirazione, fin dalle prime letture delle sue opere, che non a caso indussero la nascita del mio primo lavoro, incredibilmente uscito per puro caso il 4 settembre del 1996, nel centenario della nascita di Artaud.

L’ispirazione artaudiana è stata di sicuro cardinale anche in termini di quel senso di sacrificio consistente nel volere donare la propria vita all’arte, connesso all’esigenza di fare fuoriuscire qualunque comportamento ribelle, in grado di liberare quello slancio fondamentale pronto a spingerti ad operare sacrifici che magari a molte persone parranno pura follia, ma che io invece mi sono sempre sentito “obbligato” a compiere in virtù di una necessità rituale (in effetti, è l’istinto del sacrum facere, del fare qualcosa che sia sacro per sé, per la propria vita, che vince ogni freno...).


Entrelacs du rêve ha alla base un lungo lavoro di autoanalisi dell’attività onirica diretto ad avanzare nella sua lettura e interpretazione. Quali sono state le diverse fasi del tuo lavoro con i sogni e che ruolo hanno avuto il linguaggio musicale, letterario e artistico nell’intero processo?


Tutto iniziò in maniera assolutamente inconscia nell’estate del 2014, periodo in cui di sicuro i miei recettori erano già in grado di percepire da lontano ciò che sarebbe successo nei mesi a venire, tanto che l’intensa attività onirica di luglio e agosto si era contraddistinta per originalità, se non addirittura per trame a dir poco misteriose: due curiosi sogni, in particolare, erano rimasti ben saldi nella mia memoria all’immediato risveglio, al punto tale da condurmi, dopo la stesura di un abbozzo in cui venivano riportate in maniera sommaria le immagini oniriche così come la mente era in grado sul momento di ricostruire, a elaborare vere e proprie narrazioni sotto forma di due racconti, anche grazie ad una dettagliata, e a tratti anche faticosa, analisi a ritroso: così nacque il libro Intrecci del sogno.

Di lì a breve sorse l’esigenza di trasferire quelle visioni oniriche in un corrispondente musicale, così che iniziai a scrivere il primo duo per violoncello e pianoforte, Dromomania 11-16. Mi era parso infatti come se avessi ricevuto – da non so dove – un chiaro invito. Come se il raccontare il sogno a parole non bastasse, nella misura in cui insufficienti si rivelavano i sensi in esse contenuti: servivano quindi altre forme espressive a dare degno compimento a quel progetto di comunicazione elevata nato presumibilmente al di fuori della mia psiche, sfruttata con l’obiettivo di farle produrre qualcosa di impegnativo e magari intrigante. È inoltre verosimile che i sogni possedessero alcuni contributi sonori, non conservatisi nella memoria della veglia.



Si potrebbe quasi paragonare questo metodo creativo e d’indagine a ritroso con la ricerca filologica svolta ad esempio sulle sculture antiche, che, come varie fonti archeologiche hanno provato, erano pressoché tutte molto variopinte: un sogno multimediale, quindi, o forse più verosimilmente cinematografico, che per essere rintracciato, quasi rivissuto, necessitava a questo punto di un suo simulacro visuale, alias di immagini – sotto forma di opere grafiche – anch’esse ripescate dai meandri del cervello e realizzate per fornire una rappresentazione interiore, quasi "concreta", delle visioni cruciali presenti all'interno dei sogni.

La lettura in chiave sonora dei racconti è stata condotta scrivendo per entrambi quattro brani musicali, legati tra loro ma con strutture e organici differenti: a partire dal gioco a due del duo violoncello-pianoforte, tre forme compositive accompagnarono questa prima, permettendo così interpretazioni dei sogni multiformi emerse incessantemente durante la stesura delle narrazioni. Impiegando pertanto l’iniziale coppia dei succitati duo come base per strutturare gli altri tipi di brani – ciascuno “figli” di un “padre” di cui preservano un instabile leitmotiv – seguirono due composizioni con voce femminile, violoncello, percussioni ed elettronica, quindi due improvvisazioni “bi-pianistiche” (ottenute cioè registrando anzitutto una traccia contenente una prima parte con un utilizzo variegato della cordiera insieme a rielaborazioni elettroniche, sulla quale suonai la seconda parte in diretta sulla sola tastiera), infine i duo soprano-mezzosoprano a cappella. La struttura complessiva del lavoro musicale svela la ricorrenza del numero 2 e delle sue prime potenze (4, in relazione all’organico delle composizioni più dense in senso orchestrale e alle tipologie di brani; 8, il totale delle tracce presenti). Il doppio, quindi: in effetti, nella fase del sogno siamo doppi, nel senso che la nostra componente cosciente si interfaccia con quella propriamente inconscia. Le vicende vissute all’interno dei sogni sono quasi sempre il prodotto di stimoli direttamente connessi ad avvenimenti vissuti nella vita materiale, uniti ai loro doppi, vale a dire ad immagini ai primi in apparenza sconnesse, provenienti da ciò che siamo soliti chiamare inconscio: non v’è infatti necessariamente un collegamento diretto tra queste ultime e alcun episodio vissuto, anche in passato, o magari nell’infanzia.

Gli stessi titoli delle immagini grafiche sono composti di una sola parola, ma doppia, ottenuta dalla fusione di due termini: Alprazojail, Asbestosquartz, Spelltangle, Ex-trangement, Chessmishmash, Bar-der, Railwhips, Glitchnoises. Va rimarcato che non c’è corrispondenza diretta tra queste ultime e le otto composizioni musicali: le immagini sono infatti strettamente associate a momenti precisi delle narrazioni.


Quali credi che siano le opportunità e i limiti di questa scrittura del sé?


A dir il vero non mi ero ancora chiesto se questo lavoro di descrizione onirica potesse offrirmi opportunità inattese. Nel momento in cui stesi il primo abbozzo delle immagini di quei sogni, all’epoca residue nel mio cervello, sentivo di essere quasi tormentato dalla loro bizzarria, che ritenni pertanto degna di essere raccontata. Cosa inoltre per me non frequente fu il fatto che di quei sogni ricordavo ben più di quanto di solito mi capitava, tanto da convincermi, a costo di sforzarmi in una ricerca anche pericolosa nella memoria, di riuscire nell’intento di dare compiutezza alle narrazioni. A ripensare oggi a come sono andate le cose, viene comunque da credere che il mio inconscio abbia forse chiesto di esibire il sé in una forma narrata tramite la quale fosse possibile fare autoanalisi, in un momento della mia vita in cui varie criticità e conflittualità stavano per emergere, generando varie complicazioni. In ogni caso, credo che le esigenze creative di un artista siano quasi sempre legate in maniera più o meno evidente e diretta ad eventi significativi o critici della sua vita: pertanto, che la creazione rappresenti un tentativo di raggiungere una salvezza da uno stato di sofferenza è spesso un dato di fatto. Riguardo poi agli eventuali limiti connessi a tale operazione, direi che possono risiedere nella possibile incompletezza degli eventi ivi narrati, dovuta alla difficoltà di rintracciare nella memoria l’intero svolgimento degli stessi all’interno del sogno. Pertanto, pur trovandomi nella condizione di possedere le informazioni sufficienti a farmi stendere una narrazione adeguatamente densa e scorrevole, ho comunque conservato il dubbio se qualcuno dei due sogni, in qualche punto, contenesse in verità qualche altro elemento che non sono riuscito a ripescare nella memoria. Data l’evidente complessità dei sogni, non sarebbe purtroppo strano e proverebbe come l’esperienza onirica sia in realtà irripetibile, pertanto anche inenarrabile nella sua perfezione dei dettagli. A meno che non ci si affidi a quel prototipo già immaginato da Wenders nel film Fino alla fine del mondo (1991), in grado – oltre che di permettere ai ciechi, grazie alla trasmissione di impulsi cerebrali, di “vedere” registrazioni video opportunamente filmate – di registrare i sogni su supporto digitale e di riprodurli su schermo! La cosa pazzesca è che, già da qualche anno, è stata inventata da alcuni scienziati giapponesi una vera e propria dream machine, in grado comunque, a quanto risulta, di visualizzare i sogni con una approssimazione del 50%... Le immagini a schermo generate dal dispositivo del dottor Farber di wendersiana creazione erano parecchio informi, per nulla dettagliate e nitide; non saprei dire quale possa essere la qualità delle immagini prodotte da questo nuovo sensazionale prototipo giapponese, ma credo non si possa certo parlare di “film del sogno”. È tuttavia probabile che il sognatore, messo di fronte alla visione, seppur irregolare, del proprio sogno, sia in grado di ricostruirne quasi per intero le vicende, ottenendo qualcosa di più completo di ciò che sono riuscito a realizzare con la mia operazione.


Entrelacs du rêve si compone di otto suite per archi, pianoforte, percussioni ed elettronica cui si aggiungono – talvolta sostituiscono – le voci di un soprano e di un mezzosoprano. In che modo gli strumenti e le voci si sono accordati alla realizzazione del progetto? Quale equilibrio hai ricercato tra il cantato – o il recitato – e le voci dei vari strumenti?


Come più sopra affermato, per ciascun sogno-racconto la base di partenza creativa è stato il rispettivo duo violoncello-pianoforte: non per nulla i titoli di queste due composizioni sono identici a quelli dei relativi racconti. Appena iniziai a scrivere Dromomania 11-16 avevo già deciso quale sarebbe stata la struttura dell’intero concept, quindi la tipologia degli organici delle quattro composizioni riferite a ciascun sogno. Giustamente tu parli di equilibrio, visto e considerato che tale scelta degli organici avrebbe permesso a violoncello e pianoforte – oltre all’elettronica – di essere presente in quattro brani, alle voci in tre brani e alle percussioni in due brani: una scelta perciò basata anche su un equilibrio numerico. In realtà, la presenza delle percussioni, seppur rilevante nelle due composizioni coinvolte, è da considerarsi in un certo qual modo incidentale, come un intervento ospite, visto e considerato che sono proprio Simone Montanari (violoncello), Sonia Visentin (soprano) e Matilde Secchi (mezzosoprano) le persone con le quali da vari anni condivido l’esperienza di Autunna et sa Rose, vale a dire quelle attorno a cui ruota l’intero nuovo progetto. Pertanto ogni blocco di quattro brani parte dal duo violoncello-pianoforte per sfociare nel duo soprano-mezzosoprano: un vero e proprio passaggio di consegne, attraversando due forme compositive miste. Del resto, il linguaggio impiegato dai due strumenti, caratterizzato dalle timbriche che essi sono in grado di produrre, ha permesso di realizzare un tipo di composizione capace di descrivere in maniera più o meno rigidamente sequenziale le immagini e gli avvenimenti propri dei racconti; laddove, nel caso dei duo vocali, avvalendomi solo di alcune cellule sonore dei duo strumentali, utilizzate come impulso primario, sono stato in grado di sviluppare le composizioni, fondandole su procedure connesse a teorie matematiche, con l’obiettivo specifico di rappresentare, in entrambi i casi, oggetti topologici di tipo diverso, ma entrambi riferibili al concetto formale di intreccio/entrelacs.


Gli ultimi due brani, S’engouffrer dans ces nœuds e Au-delà… de la borne X, fanno forse da epitome per l’intero progetto, evidenziando una connotazione matematica e l’apporto della topologia perrappresentare musicalmente l’immagine e la nozione di intreccio. In che maniera la teoria dei nodi entra nelle tecniche compositive dell’album?


Come già sopra ricordato, i due brani vocali di fatto chiudono i blocchi riferiti ai due sogni. La scelta dei titoli francesi fa non a caso pendant con il titolo del lavoro, Entrelacs du rêve, chiarendone nel contempo la connotazione matematica: entrelacs significa infatti intrecci, intesi come figure topologiche – in italiano comunque denominate con il termine inglese link – la cui definizione formale esiste nella teoria dei nodi e consiste in una generalizzazione di quella di nodo (precisamente, è un insieme di nodi chiusi che non s’intersecano ma che si possono intrecciare tra loro).

La caratterizzazione fornita dalla teoria dei link e la rappresentazione visuale di questi oggetti sono state utilizzate al fine di definire le strategie fondamentali per elaborare le tecniche compositive del brano S’engouffrer dans ces nœuds…, dove le due voci s’intrecciano di continuo, ciascuna cantando ad altezze alternativamente superiore o inferiore all’altra, ma sempre pronte a scambiarsi le reciproche posizioni, così come i relativi rapporti intervallari.

Per la composizione del brano ho deciso di analizzare i cosiddetti link primari, ossia quelli che non possono essere ottenuti come somma connessa di due link non banali (definita, in parole povere, da un sistema in grado di riunire due diversi link “tagliando” un filo da ognuno di questi e “riattaccando” tra loro le estremità). Di recente ho inoltre redatto un paper in cui vengono dettagliatamente illustrate le tecniche compositive del succitato brano: si intitola Dreamlinks: Link Theory Meets Music Composition. An Introduction to Compositional Methods Related to Primary Links ed è stato presentato a Stoccolma in luglio all’interno del 21° ciclo di conferenze Bridges Conference 2018 e di seguito pubblicato all’interno dei relativi Atti del Congresso. Per l’occasione ho realizzato anche un video esplicativo in cui alcune animazioni rendono più chiare le associazioni che stanno alla base dell’idea compositiva.



Per quanto riguarda invece Au-delà… de la borne X, l’ispirazione per la struttura della composizione è stata fornita da un dipinto del pittore astrattista toscano Vinicio Berti, dal titolo, non a caso, Intrecci. Nel dipinto sono presenti diversi blocchi di rettangoli di colore nero e rosso, piazzati su piani sfalsati e di rado intersecantisi. In proporzione alle lunghezze delle dimensioni maggiori dei rettangoli mutano le durate delle note cantate dalle interpreti; inoltre, la partitura del brano richiede che durante l’esecuzione, in momenti prestabiliti, le cantanti seguano precisi movimenti singolarmente incrociati, ma in direzioni sincronicamente parallele e versi opposti l’una all’altra: in tal caso, con riferimento alla teoria delle trecce l’opera di Berti mi ha suggerito di rappresentare un sistema di trecce composto di due fili, ossia una struttura aperta, dalla forma geometrica complessa e in grado di evolvere nel tempo, così come le componenti acustiche prodotte dalle due voci. Per tale ragione il brano è stato inciso impiegando un sistema di microfonazione ambientale quadrangolare, capace di catturare segnali audio “mobili” provenienti dai quattro angoli della stanza.

A partire dallo stesso brano, riferendosi a un preciso momento del secondo racconto, ho realizzato un video di genere sperimentale: nel sogno giungo davanti ad una sbarra all’apparenza indefinita, di altezza almeno un metro, oltre la quale si trova un binario. Anche qui una riflessione a posteriori mi ha portato a collegare tale visione a una mia passata idiosincrasia – evidentemente risalente all’infanzia – nei confronti dei confini: tutto ha avuto origine nei miei numerosi viaggi, fin dall’età di dieci anni, nell’allora Jugoslavia, dove i miei genitori avevano i loro genitori e altri parenti. Il video è stato interamente girato a Gorizia e dintorni, una città di confine, un simbolo storico di troppe zone del mondo divise da guerre o per ragioni politiche o religiose.



Nell’analisi di Intrecci del sogno, emerge sullo sfondo la nozione di prossimità in contrapposizione a quella di misura. Come mai adotti questo approccio topologico per caratterizzare lo spazio onirico che racconti?


All’inizio del secondo racconto onirico contenuto in Intrecci del sogno, intitolato Ossescacco, narro di aver sognato un’altissima costruzione, convulsamente costituita da vari blocchi di differenti dimensioni, raffiguranti, in varie zone, tre tipologie di pezzi degli scacchi: alfieri, torri, pedoni.



Questa costruzione appare grigia: l’assenza di toni netti e di contrasto testimonia un ristagnamento generale nel grigio. La vittoria del caos definitivo, quindi, che fagocita nel suo coacervo perverso tutte le sfide della vita, si potrebbe dire. Sì, ma anche, in termini premonitori, l’avvento di una bieca ostilità, il divenire vittima di false accuse e bugie; ad ogni buon conto, un’analisi più circostanziata conduce all’idea di un sistema che non evolve, ad una stasi, alla percezione di un apparente rilassamento, come di un dilatarsi elastico del tempo, in definitiva alla paura di uno stallo dentro il grigiore assoluto. Nel sogno ho la necessità di procedere nel mio cammino, superando di fatto la costruzione: in questa parte vi è tuttavia un andamento non lineare, una sorta di apparente ripiegamento all’indietro, come se quel passaggio richieda la “presenza di una demarcazione”, pur immateriale.


[A questo link è disponibile la sezione del racconto dove si rileva il carattere propriamente topologico della percezione vissuta nella fase onirica, nel momento in cui mi accingo a superare l’ostacolo rappresentato dalla costruzione].


Tramite lo stratagemma del segmento poetico, arrivo quindi a immaginare questa “visione” come domanda che il sogno stesso mi rivolge: una forma singolare di mise en abîme del sogno come entità che “entra in se stessa” per farsi Sfinge. È allora davvero possibile oltrepassare la costruzione? La risposta alla domanda posta dal sogno si rivela affermativa, ma essa giunge in un tempo non determinato, il quale, così come lo spazio stesso, non è misurabile. Nel sistema sogno, in tal senso statico, si ha la sola certezza di trovarsi in un insieme aperto – dove ogni suo punto è contenuto in un certo intorno, del quale non è però nota la dimensione, ogni volta mutevole e comunque non definita in senso metrico – in cui tutto pare arrestarsi pian piano, avvolto (provvisoriamente) nel grigio. Arriverà presto, tuttavia, la necessità dell’esistenza di una demarcazione, magari impercettibile (denominata Borne X), pronta a dividere due insiemi già in ogni caso aperti, configurandosi in sostanza come terra di nessuno.

Ormai conscio di avere risposto affermativamente alla domanda postami dal sogno, l’orizzonte visivo davanti a me si rischiara, facendomi a poco a poco acquisire il senso della distanza, permettendomi di “materializzare” questo confine, rappresentato da una lunga sbarra metallica a mezz’aria. Penso che tale uscita dallo stato di impasse, e con essa da quello di percezione topologica dello spazio del sogno, sia in qualche misura legata ad una differente profondità del sonno, come un passaggio da una fase inconscia – non a caso, l’ambiente puramente topologico, come sostiene Lacan, è quello in cui abita e regna incontrastato l’inconscio – a una successiva fase in cui si ha un “salto” di coscienza, probabilmente un passaggio da una fase cosiddetta non-REM a una fase REM; mi pare tuttavia più attendibile l’idea, sostenuta da Campanelli, secondo la quale il ricordo del sogno risulta essere più dettagliato quando si hanno vari microrisvegli durante il sonno. In ogni caso, il sogno offre svariati e incalcolabili spunti di riflessione, sulla propria vita, sul passato, su cosa ci attende nel futuro: proprio le sue strutture, eventualmente sconnesse ed instabili, e le sue differenti percezioni spaziali dicono di noi ben più di quanto crediamo.




*DIEGO FERRANTE

scrive di filosofia, cinema e teoria critica. Ha curato la traduzione dall’inglese di vari testi di filosofia e teoria politica; collabora con il portale online di Micromega Il rasoio di Occam. Si nutre di letture, di arte e foglie di tè. Talvolta ne legge il fondo. È tra i fondatori di zetaesse. Non sa far nodi, non sa scioglierli. Academia.edu

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