di CLELIA PINTO
A cinque anni dall’inizio dei lavori, la diga di Belo Monte, terza al mondo per “capacità di generazione” e, specularmente, di distruzione socio-ambientale, è stata inaugurata nel maggio 2016 da un’entusiasta Dilma Rousseff sull’orlo dell’impeachment. Così, il governo guidato dall’ex guerrigliera ha portato a buon fine un progetto nato con il regime militare che l’ha detenuta e torturata: risale infatti al 1975 la proposta di una diga che deviasse il corso del fiume Xingu, Amazzonia, fulcro della regolazione climatica del pianeta.
La resistenza ha vissuto momenti di forte speranza: nel 1989, la protesta indigena ha spinto la Banca Mondiale a ritirare il suo sostegno a causa delle mancate consultazioni con i popoli nativi, previste dalla Costituzione.
Ma l’obiettivo, diventato “Complesso idroelettrico di Belo Monte”, e che comportava deviare il fiume Xingu in un tratto di 100 km, inondando un’area di 400 km2, è stato ripreso e perseguito con maggiore slancio dal governo Lula sin dal 2002 e nel 2005 un decreto legislativo ha autorizzato il progetto, sebbene lo studio d’impatto ambientale fosse stato realizzato con forte conflitto d’interesse dalle stesse aziende coinvolte nella costruzione della mega opera.
SI PROCEDE: È IL "PROGRESSO" BELLEZZA
Si procede nonostante, a causa della stagionalità del fiume, la capacità massima di produzione energetica (11.200 Mw) possa essere raggiunta solo quattro mesi l’anno: ciò rende indispensabile la costruzione di una serie di altre dighe, motivo per cui l’asta di partenza per la gestione di Belo Monte è stata disertata in massa, costringendo Lula a istituire un consorzio di imprese pubbliche che se ne occupasse, mentre quelle private dirigevano i loro interessi verso la più sicura e redditizia attività di costruzione.
Si procede nonostante la mancata realizzazione delle opere ritenute indispensabili per poter anche solo iniziare, i lavori: ospedali, sistemi fognari, misure sanitarie necessarie a proteggere le popolazioni. Si procede nonostante le frequenti sospensioni dei Tribunali federali, ora per assenza di consultazioni con i popoli indigeni, ora per non aver rispettato le misure necessarie a garantire acqua potabile e trattamenti di depurazione delle acque di scarico.
Si procede nonostante la moria dei pesci (16 tonnellate di pesce morto in tre mesi determinano null’altro che una multa al consorzio Norte Energia), la contaminazione di acque superficiali e profonde, l’inondazione di isole, l’estinzione di risorse floristiche e faunistiche e delle culture al fiume indissolubilmente legate: in piena violazione dei diritti umani, le popolazioni indigene, ignorate e respinte dalle loro terre ancestrali, subiscono un’azione inesorabile di genocidio.
Chi ritiene esagerate le accuse di indios e ambientalisti dovrà ammettere che sottrarre il sostegno vitale a un popolo, impedirgli l’approvvigionamento, demolirne le abitazioni, dislocarlo in strutture mal realizzate e lontane dal modello indigeno, con utenze e affitti inaccessibili, una volta allontanato dall’originaria fonte di reddito, vita e socialità, significhi, di fatto, ucciderlo, così come il divieto ai bambini di giocare nel fiume, per via delle imprevedibili maree che hanno iniziato ad animarlo in seguito alla costruzione della diga, può essere emblema della fine di una cultura.
Un altro colpo all’Amazzonia è stato inferto dal decreto firmato ad agosto dal presidente Temer - decreto attualmente sospeso per due mesi - per l’abolizione della riserva di Renca, 46.000 km quadri, tra gli stati Amapa e Para, area protetta, destinata a uso estrattivo pubblico, per favorire le trivellazioni delle compagnie minerarie private, a neppure due anni dal disastro di Mariana, il più grave della storia del Brasile: il cedimento di una diga della miniera di ferro gestita dalla Samarco, figlia d’arte delle multinazionali Vale e BHP. Lo scorso 18 agosto, è stata autorizzata dall’Ibama (Istituto brasiliano delle risorse naturali rinnovabili e ambientali) la linea di trasmissione elettrica ad alta tensione di Belo Monte, la più estesa del paese: con un “risarcimento ambientale” di circa 35 miliardi di reais (circa 10 milioni di euro) potrà percorrere 2.500 km e cinque stati.
La resistenza si è spostata altrove: sul fiume Tapajos (800 km di corso, dal Mato Grosso allo stato del Pará, 12.000 indios Munduruku coinvolti) dove lo stesso Ibama ha bloccato la costruzione di un’altra diga, quella di São Luíz (il progetto ne prevede oltre quaranta) perché ritenuta insostenibile: priva di uno studio sull’impatto ambientale, inonderebbe il territorio Munduruku, costringendo al respingimento delle popolazioni. Con la resistenza si sposta l’utopia, quell’orizzonte che a ogni passo si allontana.
Sta a noi sentire quanto è lontano o quant’è vicino, il Brasile.
Quanto siano vicini il disboscamento, l’avvelenamento delle acque, la violenza istituzionale contro i più deboli e quanto la parola “resistenza” sia da vivere tutti i giorni, in un’epoca che ci nega l’alibi di non sapere.“Resistenza” è agire quotidiano, passa anche da quel che non compriamo, quel che non finanziamo, quel che non mangiamo: il “no” di ogni giorno. Cantava Vandré durante la dittatura brasiliana: “Chi sa agisce ora, non aspetta che succeda”!
Aspettare” e “sperare” in portoghese confluiscono nello stesso verbo: “esperar”, ma quella che incide sulla realtà è la speranza che sa di non poter più aspettare: ora come allora e qui come oltreoceano, è necessario agire.
*CLELIA PINTO
Laureata all’Orientale di Napoli in Lingua e traduzione portoghese, ha oscillato tra le Crónicas di Lobo Antunes - tradotte per la tesi - e i fumetti di Galvão, questi ultiumi tradotti per Lavieri (Absurdyum, 2010) e come strisce della Gazzetta dello Sport (2012). Ha inoltre tradotto Belo Monte. Annuncio di una guerra, di André Vilela D’Elia, collettivo Cinedelia di São Paulo e, sempre con felicità, tante altre cose belle, seppure a volte dolorose. Dal 2004 appena può scappa in Brasile e al quarto viaggio comincia a dubitare si torni mai davvero.
Comments