di EDA ÖZBAKAY
LA PIETRA LUNARE
Tommaso Landolfi, Adelphi, Milano 1995
Quest’estate le rose sono azzurre; il bosco è vetro.* - Una specie di presentazione
Qualche anno fa, curiosando in una libreria dell’usato nel quartiere San Lorenzo a Roma, mi capitò tra le mani un piccolo biglietto riposto nel risvolto di copertina di un libricino di Adelphi. Pensavo fosse solo uno scontrino, ma girandolo vidi scritto qualcosa. La firma non era leggibile, tuttavia il messaggio mi convinse a comprare il libro. Si trattava de “La pietra lunare”, il primo romanzo di Tommaso Landolfi, scritto nel 1937.
Oggetto della narrazione è l’incontro tra Giovancarlo Scarabozzo (“a P. tutti i buoni nomi finiscono in ozzo”), un timido studente tornato in vacanza nel proprio paese natio, e Gurù, una ragazza con le gambe di capra e “braccia nude che abbagliano come latte in una coppa di topazio”, che lo introdurrà in un regno arcano. È una favola grottesca sospesa tra due realtà, quella della vita di provincia e quella fantastica, onirica.
È un libro di un’eleganza selvaggia. Una calamita surreale di mezza estate che, negli ultimi anni, ha trascorso la sua esistenza mostrandomi il suo dorso impilato nella libreria. Almeno fino alla scorsa settimana, quando tra le immagini di un documentario su Henri Rousseau la mia attenzione è stata rapita da quelle riguardanti “Il sogno”, un’opera del 1910. Il dipinto richiama una giungla surreale, in cui una donna nuda e sdraiata su un divano, Yadwigha, ascolta una melodia suonata da un incantatore indigeno e si fa trasportare nel mondo dei sogni. Mi ha colpito lo sguardo del pifferaio indigeno, non immediatamente visibile perché nascosto nell’oscurità della giungla che lo avvolge. Un’oscurità complementare al candido corpo di Yadwigha, il suo lato ombra, il suo mondo dei sogni. È da quel mondo surreale che spiccano gli occhi del suonatore, fissando lo spettatore, proprio come mi immaginavo gli occhi di Gurù al primo incontro con Giovancarlo. “E allora, d’improvviso, il giovane si sentì guardato. Dal fondo dell’oscurità, resa più cupa da un taglio alto di luce lunare sul muro di cinta, due occhi neri, dilatati e selvaggi, lo guardavano fissamente.” (p.21)
Decisi di rileggere il libro. Lo presi dallo scaffale, aprii il risvolto di copertina e lessi il messaggio sul bigliettino. Diceva:
“Spero che questa favola contribuisca ad allontanarti dalla realtà. Ciao, bacetti.”
* “Io credo nel futuro risolversi di questi due stati, in apparenza così contradittori, sogno e realtà, in una specie di realtà assoluta, di surrealtà. Addio selezioni assurde, sogni d’abbisso, rivalità, lunghe pazienze, fuga delle stagioni, ordine artificiale delle idee, rampa del pericolo, tempo per tutto! Che ci si dia soltanto la pena di praticare la poesia. Quest’estate le rose sono azzurre; il bosco è vetro.”
(André Breton, Manifesto del Surrealismo)
*EDA ÖZBAKAY
È una traduttrice e docente turco-tedesca. Intraprende studi in musicologia negli anni di formazione in Germania, si laurea a Roma in Lingua e Letteratura Inglese e Spagnola. Per Del Vecchio Editore ha tradotto opere di Çiler Ilhan e Burhan Sönmez. Scrive di musica. Redattrice di zetaesse.
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