di SARA DE CARLO
Ama kahvaltının mutlulukla bir ilgisi olmalı
Ma la felicità dev’essere qualcosa che ha a che fare con la colazione
I piedi dei viaggiatori sanno di dover esser grati alle bocche che masticano i cibi delle terre che attraversano. Energie e culture, memorie d’intere derive di continenti, entrano dagli orifizi a nord del nostro corpo e fanno sì che giù a sud i piedi battano suoli con più forza e più consapevolezza. Ogni geografia predilige alcuni tempi per imbastire tavole e condivisioni. È a molti risvegli che sento nostalgia, dall’anima fino allo stomaco, di quello spazio sporto sul Bosforo, della città dai molti nomi in cui ho vissuto per mesi che son diventati anni. Forse non è un caso che da Efeso, oggi turca ma una volta greca, l’oscuro Eraclito sollecitasse al risveglio i dormienti. Di prima mattina, nelle case dei tanti turchi, curdi, armeni, rum, lazı…si partecipa a quel rituale lento, percosso dai profumi del primo pasto della giornata a cui in terra d’Anatolia si è devoti; ché sì, il discutibile kemalismo di Atatürk molto ha laicizzato la cultura di lì, ma non ha potuto intaccare il mistico senso del palato legato alla colazione.
Colazione come coalizione, di prima mattina è l’armistizio, quasi ci si scorda della violenza dello sciovinismo, dei processi di assimilazione che hanno messo a tacere le minoranze, e sulle tavole – o spesso su vassoi poggiati sui tappeti – il dolce e il salato si ibridano come l’Oriente e l’Occidente che s’intersecano in terra turca, di prima mattina albeggiano preparazioni che incrociano svariate tradizioni di cui si è dimenticata l’origine. E dove l’origine si aggroviglia alla dimenticanza, non esistono più diritti di primogenitura, e di tutto a tutti si è grati.
A Parigi Walter Benjamin un giorno descrisse una colazione come «la plus petite image de cette ville»; chissà cosa invece dovette pensare Eric Auerbach, durante il suo esilio a Istanbul, della colazione turca!
Letteralmente la parola kahvaltı vuol dire ‘prima del caffè’. E in effetti più che il turk kavhesi, il caffè turco, la fa da padrone il çay, il the di quel Mar Nero in cui i naviganti persero la Trebisonda, il çay che si gusta in bicchieri di vetro la cui forma richiama un lale, un tulipano, il fiore che gli Olandesi rubarono quatti quatti nella seconda metà del ‘500 agli Ottomani; lo si prepara in una bislacca teiera, il çaydanlık, che pare un visconte dimezzato, composta com’è di due parti di dimensioni diverse.
Simit – le ciambelle di pane adornate di sesamo – e poğaça – deliziosi panini soffici – accompagnano olive, pomodori, cetrioli, peperoni verdi, formaggi d’ogni sorta, kaymak – uno yogurt burroso –, marmellate d’amarene, mele cotogne o rose… Poi c’è il menemen, lui che è stato ed è, nella sua semplicità, il mio feticcio laico: una ciambotta fatta con uova, pomodori e peperoni. Le colazioni più belle le ho fatte dal mio più caro amico, in un balcone ombreggiato da un maestoso tiglio, e per me davvero è quella la felicità, la mia zolletta di zucchero che mi porgeva per il çay.
Sempre lui mi ha insegnato un’espressione: ‘eline sağlık’, così si dice nella terra turchina per dire grazie alle mani, alle mani che hanno cucinato, a quelle che hanno pulito, a quelle che hanno creato cose belle, a quelle degli artigiani, a quelle che hanno saputo accarezzare. Ma lo si dice per lo più a tavola, prima, durante e dopo colazione, prima, durante e dopo ciascun pasto. Come prima, durante e dopo il pasto si ripete più volte ‘afiyet olsun’, buon appetito. Lo si dice, sì, anche alla fine, quando il cibo ha inesorabilmente cominciato la sua anabasi nel nostro metabolismo. E a me piace questa lingua piena di gratitudine e lungimiranza, una lingua che sa render grazie alla materia e ai suoi movimenti. E a lei dico grazie io pure, alle sue mani, alle tante che mi han preparato colazioni turche, a quelle che ancora lo faranno.
*SARA DE CARLO
Non ama e nemmeno sa scrivere poche righe di cenni autobiografici, l’unica cosa che può dire di sé è che, nata nel ’79 a Castellammare di Stabia e votata com’è alla nostalgia, insegue il destino delle navi dei cantieri della sua città: come quelle attraversano i mari per poi far ritorno al punto di partenza per il rimessaggio, anche lei approda qua e là – ha finora vissuto tra Parigi, Valencia, Istanbul, la Puglia e Napoli – e poi torna sempre nel suo porto di provincia. Andando e tornando insegna (storia e filosofia) e (ahimè meno volte!) disegna.
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