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Considera l’oca. Due anni nella scuola dalla parte delle studentesse

di ERICA GROSSI



Zetaesse. Erica Grossi. E se «Che oca!» fosse un mormorio continuo intorno allo stormo di studentesse di una scuola da parte di un altro stormo, quello dei docenti?


Parafrasando David Foster Wallace in quel saggio che Considera l’aragosta, nella pratica sappiamo tutti cos’è un’oca. «Come al solito, però, c’è molto di più da sapere di quanto possa interessare alla maggior parte di noi – è solo una questione di quali sono i nostri interessi.» (p.264)

Io che invito a considerare l’oca, sono un’insegnante della scuola secondaria di secondo grado, potenziale docente di Filosofia e Storia, specializzata per il Sostegno alle studentesse e agli studenti con disabilità con cui lavoro da quasi tre anni. Il testo che segue nasce dall’esperienza degli ultimi due anni in un istituto superiore della provincia milanese. Due anni nei quali i miei interessi sul genere e sui generi, sull’educazione e sul compito di chi educa, sono stati messi alla prova dalla quotidianità di discorsi e pratiche con cui si maneggiano categorie e si utilizzano immagini e figure per rappresentare chi la frequenta.

Considero l’oca-studentessa, quindi, e non un generico soggetto-donna-oca con l’intenzione di collocare il problema nella sua specifica cornice: l’uso della lingua nel suo senso comune e informale – i modi di dire, i proverbi, la retorica figurata bestiale (ovvero proveniente dal bestiario come campionario di modelli) – in un contesto specifico come quello scolastico frequentato dalle adolescenti in età compresa tra i 14 e 19 anni. Intendo cioè ragionare sulla pratica dell’assegnazione di questa etichetta-stormo sessista e paternalista a un numero cospicuo di utenti (femminile plurale) di una scuola secondaria di secondo grado da parte di un certo tipo (e numero) di insegnanti (neutro plurale).

Considero, dunque, l’oca nel senso indicato da espressioni sentite e in uso quali «Che oca!», «Un’oca giuliva» o da quelle più elaboratore e personalizzate come «Tutte insieme fanno l’“effetto oca”». A volte, poi, «Che oca!» è utilizzato nella variante di «È proprio una papera», però non nel senso di «Questa che ha fatto è proprio una papera», non con la volontà di intendere il verificarsi imbarazzante per chi agisce e divertente per chi guarda di una gaffe, dell’errore umano generatore di brutte figure. Una chiave espressiva che richiama alla mente dello spettatore televisivo medio la trasmissione di rete berlusconiana che della papera superlativa assoluta ha fatto una chiave di analisi della realtà, una categoria culturale e un prodotto di mercato con il suo indice di risate preregistrate. «È una papera» in un senso più simile a quello di «È un’oca» e che è diverso dalle possibili variazioni descrittive e metaforiche del «papero» maschile singolare: il Paperino cartonato, antonomasia della sfiga, eroe fregato dalle bucce di banana.

In «Che oca!» l’intenzione è giudicante e l’uso comune discriminatorio e violento sia nel parlato quotidiano della scuola in questione sia nel quotidiano tout court. Ciò è tanto più vero se si considera il rapporto di forza che nella scuola può tradurre la percezione/considerazione dello spettatore – lo/a insegnante – da etichetta informale in un punteggio formale nelle griglie di valutazione e scale di giudizio scolastico.

Di che genere di etichetta si tratta? Stando alla definizione scientifica di oca e a quanto tutti nella pratica possiamo saperne, il nome si riferisce tanto al maschio quanto alla femmina dell’animale. «È proprio un’oca» dovrebbe poter calzare con chiunque sia associato ai “modi” e alle “qualità” considerate proprie di questo specifico uccello. Basta però percorrere la serie di modi di dire in uso nella lingua e nella cultura italiane per comprendere che non è invece “neutro” l’uso che dell’espressione si fa comunemente, come riportato dalla voce esaustiva e completa del vocabolario online Treccani.



Zetaesse. Erica Grossi. E se «Che oca!» fosse un mormorio continuo intorno allo stormo di studentesse di una scuola da parte di un altro stormo, quello dei docenti?


Ora il punto, qui, è considerare l’oca per far emergere alcune forti criticità di un contesto educativo ancora intriso di discriminazione sessuale che si intende popolato di oche – l’adolescente frivola da educare e ammonire; o lo studente cui si associa un fare effeminato, quindi fuori luogo, e cui di conseguenza si attribuisce un orientamento omosessuale; e di leoni, torelli, cani sciolti, lupi solitari – esemplari diversi dello stesso modello di adolescente capobranco, il futuro maschio alfa della società per come deve essere.

Essere oca è quindi uno stigma biologico, un fatto di nascita e una condizione deprecabile calati sull’esistenza anche scolastica delle studentesse adolescenti come un destino inevitabile, come una griglia di valutazione morale, una formina dell’identità piccola, frivola e ciarlante. Essere leone, toro – il bull-o – è invece un percorso di iniziazione proprio dei giovani maschi – nati biologicamente uomini e nutriti culturalmente a essere forti, coraggiosi (intelligenti?), naturalmente dotati di tutto quel che serve a dimostrarsi degni del dono biologico della maschilità. Lo evidenziano espressioni quali «Avere le palle (quadrate)» o «C’ha due coglioni così», rivolti a uomini e donne, anche a studenti e studentesse, ma che nel primo caso sottolineano una naturale dote di forza e coraggio – contenuta nelle gonadi che stabiliscono il sesso biologico; nel secondo caso, puntualizzano l’eccezionalità di un individuo che mostra caratteristiche non proprie alla sua condizione naturale – la femmina biologica con una indole maschile. Tant’è che le si attribuisce un ulteriore paio di gonadi, integrando nello stormo metaforico che accoglie «l’asino che vola», «l’oca con le palle di toro».

Così, per aggiungere un’altra triste pagina a questo bestiario sessista e maschilista, conversazioni e commenti che si spingono oltre il sottinteso della frivolezza dell’oca-studentessa, nata e fatta solo per frequentare le aie – corridoi e bagni della scuola, centri commerciali, piazze e muretti –, spettegolare con le sue pari a discapito di altre pari – «Si sa che le femmine non sanno fare gruppo come i maschi»: e qui oltre allo stigma della frivolezza, si aggiunge anche quello di una morale precaria a tutto tondo. A questi si aggiunge infatti lo stigma connaturato della vanità dell’oca, evidente nella sua andatura sempre ammiccante. All’oca – giuliva e senza morale (religiosa) – si contesta la precocità sessuale, anzi, una presupposta maestria nella sfera dell’erotismo che viene commentata come provocazione a discapito dei pari di sesso maschile.

È a questo punto che la metafora dell’oca perde d’“ingenuità” e scivola nella più diretta delle definizioni: «Quella lì è solo una troietta», uno dei tanti possibili risvolti di un discorso sessista che con «Che oca!» si poteva ancora minimizzare dietro le intenzioni «assolutamente non negative» di chi parla, a quel «detto in modo scherzoso» «in senso buono» e solo «a titolo figurato» di un linguaggio sessista solo per le orecchie di ascolta. Ma se a parlare così sono quasi sempre docenti uomini di mezza età, è lecito contestare loro una sottesa viscida pulsione verso le studentesse o quanto meno una formazione sul genere non adeguata ai tempi che corrono – Ok boomer! Se si considerano l’oca e così la troietta, le si immagina allora sedute nelle loro classi, oggetto tanto degli sguardi e dei commenti dei coetanei quanto di quelli dei loro docenti che non intendono impartire loro soltanto la lezione del giorno – che spesso parla ancora dalla prospettiva dell’uomo bianco, occidentale, eterosessuale, colonizzatore/scopritore/inventore/civilizzatore ecc. – ma anche quella della vita, in un continuo mansplaining che le studentesse devono subire e gli studenti imitare.

Sono infatti gli adulti che producono e riproducono un discorso educativo che asseconda quando non esalta le doti dei giovani machi e latin lover che sanno fin da giovanissimi come trattare «una tipa», mentre disdegnano la stessa «competenza socio-relazionale» quando si tratta delle loro coetanee. Se c’è un playboy, allora ci sarà anche una “coniglietta”, un brand che, seppur al collasso a fronte di scandali e contestazioni provenienti dai movimenti e dalle mobilitazioni femministi, è ancora vivo in un certo immaginario pop. Però se allo studente avvezzo all’espressione e al godimento della propria sessualità si riconosce una skill, alla sua coetanea questa viene negata, anzi, viene utilizzata contro di lei per ammonirla come prova del suo essere una ragazza «da poco» oggi, quindi una donna «per male» domani. La lezione del protezionismo sessuale – Bisogna difendere la società! – vale ancora da deterrente contro la “corruzione” della gioventù, ma si applica principalmente alle adolescenti che dovranno sempre essere in grado di mostrare e assecondare la loro “naturale” femminilità – guai se fosse il contrario! – ma saranno ammonite a tenere a una certa altezza l’orlo delle gonne e delle magliette per non diventare preda degli istinti pure “naturali” dei loro coetanei.

Si potrebbe a ragione ricondurre quanto scritto fin qui alla specificità episodica di un’esperienza. Il problema vero però è che questa esperienza, per quanto localizzata e personale, trova sponde in un discorso più formalizzato ed esteso che viene propalato sia in una parte della manualistica in uso nelle scuole di ogni ordine e grado, sia nei programmi di formazione e specializzazione dei docenti, prodotti da pedagoghi, formatori e autori della letteratura del settore. Un’altra sponda di questa eco discorsiva è quella di intellettuali, accademici, psicologi, sociologi che si esprimono quotidianamente sugli adolescenti nella scuola senza averci mai messo piede: uno stormo di uomini di mezza età bianchi eterosessuali, reclamanti un attaccamento anche solo per principio alle “radici cristiane dell’Europa” e ora anche alle «radici femminili» dell’essere donna.





Nonostante il lavoro quotidiano, l’elaborazione metodologica e la proposta di alternative didattiche ed educative di molte e molti specialisti dell’istruzione e attivisti culturali, il discorso dominante intende l’utente della scuola pubblica in quanto bambino, adolescente, alunno, studente, ragazzo, il futuro uomo eterosessuale (bianco). In un testo noto e straletto, e accreditato a livello ministeriale nell’ambito della pedagogia speciale per l’inclusione, si dice infatti che il compito di questa è «farlo diventare “più uomo”» (p.79) – si badi, lo diceva Papa Giovanni Paolo II! – che:


[...] noi uomini maturiamo anche affrontando i pericoli, imparando a difenderci dalle avversità, riuscendo a governare le nostre preoccupazioni con il coraggio. [...] (p.67)

[...] lo verifichiamo guardando i programmi televisivi, dove bellissime ragazze poco vestite provocano turbamento in ragazzi con disabilità intellettiva, incapaci di metabolizzare cognitivamente visioni che suscitano appetiti sessuali difficilmente gestibili [...]. (p.147)

Sembra quindi potersi escludere che con «ogni uomo», «noi uomini», «più uomo» s’intenda l’individuo, l’essere umano – «che è più grande», per citare il divo-cane Stanis di Boris. Prova ulteriore ne è il fatto che in scritti come questo la presenza delle studentesse si riduce spesso a rendicontazioni negative: dall’aumento statistico dell’uso di sostanze stupefacenti, ai casi di hiv registrati, al fenomeno di bullismo femminile ecc. Ciò risuona nel senso comune per cui ci si meraviglia di «sentire certe cose uscire dalla bocca di una ragazza!» oppure del fatto che la realtà scolastica mostra un inatteso e impensabile (per gli adulti) rovesciamento dei ruoli di genere preordinati: una studentessa più brava in uno sport di squadra o in una disciplina “dura” come la fisica.1

Prima di continuare ad analizzare i fatti e i risvolti più ampi che sento intorno a questa seppur localizzata esperienza, vorrei definire più chiaramente qual è la mia prospettiva sulla questione. Mi riconosco, infatti, nella teoria transfemminista che riflette sulla complessità e sulla molteplicità delle identità di genere e sessuali contro il binarismo come categoria obbligata, sulla quale sono tracciate le principali strutture sociali e culturali – e giuridiche – della realtà in cui viviamo. Sul corpo di queste adolescenti si attivano quindi discorsi e logiche che sono gli stessi che poi vengono applicati contro ogni individualità e identità di genere e sessuale che non rispetti il modello binario eterosessuale dominante. Del resto è sulle bambine, fin da piccole, che vengono operate «la riduzione forzata dell’aggressività» (ed. 1973; p.95) e l’orientamento per «le attività preferite e quelle suggerite [...] con mezzi capillari», dalla scelta dei giochi e dello «stile ludico», alla letteratura. In seguito, la vivacità e l’energia della adolescente viene contrapposta a quella del suo coetaneo come inappropriata, volgare, rispettando una dinamica che, attiva fin dall’infanzia, preferisce la “femmina” «docile, conformista, pavida [...] salvo poi rimproverarglielo» (p.101). In questo senso, «lo sviluppo femminile può essere definito una frustrazione permanente» (p.165) che si espleta anche nello spazio della formazione scolastica, tra i banchi, insieme ai pari e ai docenti. «La scuola è, infatti, una realtà nella quale discriminazioni e svantaggi femminili sono sottostimati e poco visibili in quanto le donne, come docenti e studentesse, sono molto presenti». Eppure il discorso e le pratiche di empowerment della propria identità di genere e le problematiche a queste connesse sia nei rapporti sia nei saperi trasmessi sembrano fermi a riflessioni che funzionavano identiche nei primi anni della contestazione femminista:


Il bisogno di classificare [...] gli esseri umani sceglie sempre la classificazione più facile, più evidente [...], quella già accettata dal costume antico di millenni. La prima e fondamentale è quella per sessi: è una forma di razzismo ma con apparenze di una naturalezza tale da non suscitare nessun dubbio che sia scorretta o ingiusta. (Gianini Belotti, p.156)

In un essenziale testo della controcultura al sistema scolastico di quegli stessi anni, Lettera a una professoressa, nel descrivere la composizione dei «ragazzi del paese» si tira fuori un altro esemplare volatile come la frivolezza cui la società associa le bambine: la gallina, più familiare all’ambiente rurale di Barbiana dell’oca del Campidoglio.


Delle bambine del paese non ne venne neanche una. Forse era la difficoltà della strada [per raggiungere la scuola di Barbiana ci si deve inerpicare su per una strada di collina]. Forse la mentalità dei genitori. Credono che una donna possa vivere con un cervello di gallina. I maschi non le chiedono d’essere intelligente. È razzismo anche questo. (ed. 1996, p.16)

Una riflessione questa che sottolinea la condizione di “razzismo” di genere nella quale vivono le bambine di quegli anni, nonostante la normativa che fissa l’obbligatorietà della frequenza scolastica per tutti e quindi per tutte. Solo le bambine, però, partono con un cervello e forse anche con le zampe di gallina se, nonostante la familiarità con l’ambiente che condividono con i loro coetanei, si ipotizza solo per loro una difficoltà ad affrontare il percorso che si inerpica verso la scuola. Il punto, quindi, non è riconoscere loro eguale disponibilità intellettiva ma che gli uomini le lascino allenare nella scuola per diventare intelligenti, non essendolo evidentemente per predisposizione “naturale”. Il passaggio dalla casa alla scuola dovrebbe avvenire su richiesta dei padri che concederebbero di tentare di trasformare le galline in qualcosa di diverso che, nel testo di don Milani, non viene esplicitato. In che cosa si può trasformare una gallina se a valle della sua formazione scolastica elementare si presume l’attenda di razzolare l’aia, di dedicarsi alla casa, alla maternità, alla cura nello spazio privato della famiglia?

A ogni modo, il discorso sembra di continuo dirsi e contraddirsi: ci si aspetta che le studentesse siano e si comportino in quel certo modo ochesco, salvo poi rinfacciarlo loro, anzi additarlo come prova di una devianza. La scelta della psico-pedagogia e del parlato di un’espressione come devianza rimanda a quel participio presente agente e sovversivo ereditato, senza alcuna apparente problematizzazione, dalla storia della psichiatria e della medicina, della reclusione e medicalizzazione forzata delle donne, dei loro corpi e delle loro menti ancora nella seconda metà del Novecento. Per non andare troppo lontano in questa lunga storia, basti a ricordarcelo la confusione sulla definizione di deviante descritta da Franco Basaglia nel 1967 in Che cos’è la psichiatria: «[U]n tossicomane perché rifiuta un trattamento psichiatrico ambulatoriale; una adolescente ribelle perché non viene più tollerata in famiglia in seguito alla relazione con un uomo non adatto eccetera» (ed. 1967, pp.160-161). La adolescente sessualmente degenere fa il pari solo con un altro capro espiatorio in uso alla società che si vuole difendere, il tossicomane irriducibile. Di queste studentesse si prevede che dopo aver deviato dal cammino nel bene se stesse e i coetanei che le guardano, andranno a rinfoltire le schiere di quegli idoli di perversità proposti alla tv, che tanto turbano i giovani (uomini) immaturi e ingenui. E che dire dei non più giovani!

Se si soprassiede sia al discorso sull’educazione alla sessualità sia alla portata biopolitica dell’approccio scelto per parlarne nella scuola – perché se ne parla nella scuola secondaria di secondo grado con progetti e iniziative ministeriali sottoscritti dalle famiglie –, il sottotesto di questo format narrativo dominante maschilista e violento rimanda sempre allo stesso plot: quello del giovanissimo casanova e delle sue giovanissime troie.





Dovrei forse chiedere una volta per tutte venia per la scelta di certe parole. Proverò invece ad aggiungere qualche asterisco mitigatore, perché invece le parole vanno portate fuori per quello che sono. Pietre. Oca, tr**a o la sua variante tr***tta, come pure shampista, se è un(’)insegnante a rivolgerle a una studentessa adolescente, sono pietre che ricapovolgono in modo eversivo, reazionario e violentissimo quel gesto della presa di parola e il rapporto di forza tra la soggettività che dice e quella che viene colpita dalle pietre. Shampista, infatti, è un’etichetta che ha una sola declinazione se appiccicata all’“abito” di una giovanissima dal suo insegnante: è discriminatoria perché classista oltreché sessista. Veicola il messaggio che lei non sia all’altezza dell’istruzione superiore, che il suo sforzo sia inutile o che il suo non-sforzo «c’era chiaramente da aspettarselo». Perché nella loro educazione «[N]on c’è luogo dove le bambine non ricevano in ogni momento la conferma che le si preferisce stupide, salvo poi rimproverar loro di esserlo» ( nel 1973: p.182). E dopo il momento della constatazione, arriva quello della lamentazione: «Ma come le è venuto in mente di iscriversi al liceo! Non ce la può fare!». E, infine, quello della correzione. A questo punto l’insegnante lega un’altra parola-pietra al piede della sua studentessa: riorientamento – l’azione di chi, paternalisticamente, prende per le spalle la ragazza frivola e la volge verso un’altra direzione, un obiettivo che lei prima, da sola, non aveva visto. Come avrebbe potuto? «Con quella testa!» Ecco, la formazione professionale per estetiste è lo specchietto per queste allodole-adolescenti-shampiste. Un altro stormo biologico e sociale di esclusivo genere femminile plurale.

Ci sarebbe da chiedersi che cosa penserebbe di tutto questo Semonide di Amorgo, vissuto alla metà del vii secolo a.C., autore di un giambo sulle donne in cui per spiegarne il «genere maledetto» le ordina in tribù di discendenza, le peggiori delle quali sono quelle la cui derivazione è animale. Le genealogie bestiali di Semonide rimandano alla scrofa – la donna sporca e grassa; alla volpe – la donna che tutto controlla; alla cagna (maledetta! per citare ancora Boris) – la donna che si lamenta di continuo pure se redarguita col bastone; all’asina – la donna lavoratrice e obbediente, anche al bastone, ma disponibile alle voglie di chiunque; alla gatta – la donna fascinosa e funesta per la casa; alla cavalla – la donna raffinata ma pigra e frivola; alla scimmia – la peggiore di tutte le donne (leggi: mogli) brutta, goffa e maligna; e, infine, all’ape – la donna fedele e devota ma benedizione solo apparente per la casa. Le donne, infatti, come gli animali da cui derivano, sono tutte una sciagura per gli uomini. Chissà se, vivendo oggi, Semonide aggiornerebbe il suo giambo misogino aggiungendovi anche una tribù-stormo volatile di oche, tanto in uso nei tempi moderni.



Alcuni stereotipi di genere nei libri di scuola. Clicca sulle foto per ingrandirle



Sono molte le domande che da insegnante mi pongo per comprendere da dove arrivino un certo profilo della adolescente e dell’adolescente; cosa vedono, provano, con cosa giocano, cosa leggono e cosa viene loro letto da bambine e da bambini e come questi condizionamenti si riproducono ancora non soltanto alla tv e su internet ma anche nel modo di fare scuola – come orizzonte culturale che passa dal linguaggio e dalla trasmissione di saperi – e di essere scuola – come composizione di relazioni e consapevolezza di identità, anche quelle di genere.

Mi pongo di continuo queste domande e mi permetto di introdurle ai colleghi che incontro. L’atteggiamento di risposta più frequente è la riproposizione degli stereotipi, la definizione e il luogo comune, l’epiteto scelto sul bestiario del senso comune, tanto «per dare un’idea». E quando decido che l’unica via è lo scontro (dialettico), la reazione più comune è la messinscena di una giustificazione e di una riduzione del danno di cui si è accusati: «Ma è un modo di dire!». Più spesso però viene agito su di me lo stesso paternalismo un tanto al chilo che provo a contrastare ponendo quelle domande: «Ma che discorsi! Ma la scuola ha ben altri problemi che bacchettare gente che lavora da anni con questi ragazzi per queste questioni!», «Sì, preoccupiamoci della sensibilità di questa gente e poi vediamo i risultati... Ma le leggi le notizie sulla criminalità giovanile?», «Altro che oche, queste sono bestie proprio! Queste non capiscono niente, queste ci prendono in giro». E, per concludere, la risposta dell’uomo adulto bianco di mezza età che tutto sa e che non ha bisogno di pensare prima di dire, non ha bisogno di leggere prima di comprendere, non ha bisogno di essere interrogato prima di decidere di imporre la sua opinione: «Tu sei giovane, sei una ragazza intelligente, sei sensibile. Io lo capisco. Ma senti a me......».

Tutte risposte senza domande. Tutte certezze senza dubbi. Non c’è bisogno di sapere altro, non c’è da perder tempo a considerare l’oca. Ma le domande restano e sono tante. Prenderò ancora una volta in prestito quelle pungenti di Foster Wallace a conclusione delle sue considerazioni sull’aragosta:


[...] non volete saperne di essere confusi o convinti e ritenete che ragionamenti come quelli del paragrafo precedente non siano che una futile contemplazione del proprio ombelico, cos’è che vi fa sentire veramente sereni, nel profondo, a liquidare l’intera faccenda? Ovvero, il vostro rifiuto di pensare a tutto questo è il prodotto di un pensiero definito, o è solo che preferite non pensarci? Pensate mai, anche solo tanto per, ai possibili motivi della vostra riluttanza a pensarci? (p.284)


 

1. Sulla genderizzazione degli indirizzi di studio il ministero ha iniziato ad occuparsi e le scuole a muoversi attraverso iniziative di associazioni impegnate nel settore e adesioni a progetti internazionali (per esempio: Coding Girls; e l’iniziativa-piattaforma noisiamopari.it voluta dalla ex ministra Fedeli per l’incentivazione dello studio delle discipline STEM per le studentesse – si veda il contributo su orizzontescuola.it). Per le indicazioni in merito a progetti e iniziative e per il confronto sul tema, ringrazio la professoressa di Filosofia e Storia e amica Nicoletta Scapparone. Eppure risulta ancora un dato di fatto su cui si basa l’orientamento delle famiglie. Ciò mostra quanto sia ancora forte il criterio della scelta delle scuole superiori basato sul sesso biologico dell’utenza e sul condizionamento che fin dall’infanzia entrambi i sessi – a prescindere dalla questione più complessa del genere e dei generi – siano instradati a operare determinate scelte a partire da ipotetiche propensioni naturali e, quindi, percorsi professionali di destinazione. Per una visione d’insieme sul tema, si rimanda al documento per l’anno 2019/2020 disponibile sul portale del Miur; e alla seguente considerazione presente sulla pagina relativa dello stesso sito: «Si conferma, infine, la vocazione femminile per gli studi liceali (60,5% dei nuovi iscritti) con picchi che riguardano la sezione Coreutica del Liceo musicale (90,6%) e le Scienze Umane (88,6%). Negli Istituti tecnici la situazione si ribalta e il 70% degli iscritti è di sesso maschile; quota che raggiunge l’83% per gli indirizzi del settore Tecnologico. La preferenza dei maschi per le materie tecnico-scientifiche si evidenzia, inoltre, nel Liceo scientifico, dove la presenza femminile scende al di sotto della metà». Oltre a rappresentare la società scolastica secondo il sistema binario maschio-femmina, sono a mio avviso espressioni come «vocazione femminile» a richiedere una revisione del linguaggio e del discorso su genere e generi nella scuola come principale agenzia educativa e culturale.




*ERICA GROSSI

Vive, ricerca ed è insegnante precaria per il Sostegno a Milano. Storica di formazione, s’interessa di fonti audiovisive per la storia contemporanea, di Public History e Digital Public History, di cultura visuale e iconografia dei conflitti del Novecento. Tra le sue pubblicazioni: Walter Benjamin. Arte, media, filosofia della storia. Per un’archeologia dei tempi moderni (Hachette, 2016).

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