di MARCO VERSIERO
Un’annotazione appuntata su un manoscritto del 1492 circa esemplifica l'analogia fissata da Leonardo per via metaforica (seppure sulla base di una schietta osservazione empirica), secondo la quale i circuli prodotti da una pietra lanciata in uno stagno siano idealmente comparabili alla propagazione delle concentriche risonanze del suono attraverso l'aria:
Sì come la pietra gittata nell’acqua si fa centro e causa di vari circuli, el sono fatto in nell’aria circolarmente si sparge.
[Parigi, Institut de France, Ms A, f. 9 v]
Pochi anni dopo, verso il 1494, questa similitudine è moltiplicata e amplificata in un meraviglioso frammento di scrittura, nel quale la propagazione delle onde acquatiche e vocali è a sua volta paragonata ai più espansi riverberi prodotti dal fuoco nello spazio (ad esempio, attraverso il subitaneo squarcio dei cieli operato da fulmini, folgori e saette), sino alla ancora più ampia proiezione delle onde della mente nell'incommensurabile dimensione dell'universo:
L’acqua percossa dall’acqua fa circuli dintorno al loco percosso. Per lunga distanzia la voce infra l’aria. Più lunga infra ‘l foco. Più la mente infra l’universo. Ma perché l’è finita non s’astende infra lo ‘nfinito.
[Parigi, Institut de France, Ms H, f. 67 t]
Il testo, intitolato, significativamente, «De anima», ad alludere alla vitalità del "corpo" della terra come macrocosmo naturale (in gemellare corrispondenza con il microcosmo umano), prende avvio da una premessa euristica: «Il moto della terra contro alla terra ricalcando quella, poco si move le parte percosse». Esso si rivela dunque un amalgama semantico di fisica degli elementi (terra, acqua, aria, fuoco) ed è evocativo, in nuce, della universale concezione naturalistica di Leonardo, che riconosce decisivi e reciproci nessi e analogie tra l'essere umano e il mondo naturale considerato nella sua interezza, concepito come un unico gigantesco organismo vivente. Compiendo una repentina e inaspettata traslitterazione dal piano fisico a quello metafisico, infatti, Leonardo ricorre qui alla classica immagine (indice insieme di poetico lirismo e di sperimentale acribia) del sasso lanciato nello specchio d’acqua, come esempio dimostrativo della qualità assunta dagli elementi naturali nel loro continuo moto di variazione e mutazione da uno stato all’altro (transitando per le rispettive “sfere”, secondo la cosmologia medievale di ascendenza tolemaica), per evocare poi la visione, di struggente bellezza, dei circuli - ovvero delle concentriche propagazioni - prodotti come per successivi riverberi dalla mente nella contemplazione dello spazio smisurato dell’universo, esattamente come le onde si diramano indefinitamente sulla superficie dell'acqua dal punto dell'impatto. In un’accelerazione vorticosa della progressione analogica, che istantaneamente si trasmette da un concetto al successivo con una rapidità di cui Leonardo è pur costretto ad ammettere il limite, per l’impossibilità della mente umana, finita, di eguagliare l’infinita mutabilità dell’universo naturale, è l’acqua come vitale omore, che percorre il corpo della terra irradiandolo di vene vivificanti, ad essere inseguito nella cangiante morfologia del suo dinamismo, facendosi così visibile veicolo della metamorfosi cosmica. Ne è dimostrazione il Cominciamento del trattato dell’acqua abbozzato nello stesso manoscritto del 1492 dal quale proviene il primo frammento, che esordisce con un enunciato dal fascinoso retaggio presocratico e neoplatonico – «L’omo è detto dalli antiqui mondo minore» – subito esplicitato in una seducente declinazione dell’equiparazione della fisica elementare con la fisiologia corporea di matrice ippocratico-galenica, che si risolve in una elaborata analogia organicistica:
Imperò che, siccome l’omo è composto di terra, acqua, aria e foco, questo corpo della terra è il somigliante. Se l’omo ha in sé ossi sostenitori e armadura della carne, il mondo ha i sassi sostenitori della terra. Se l’omo ha in sé il laco del sangue, dove cresce e discresce il polmone nello alitare, il corpo della terra ha il suo Occeano mare, il quale ancora lui cresce e discresce ogni sei ore per lo alitare del mondo. Se dal detto lago di sangue diriva[no] vene che si vanno ramificando per lo corpo umano, similmente il mare Occeano empie il corpo della terra d’infinite vene d’acqua.
[Parigi, Institut de France, Ms A, f. 55 v]
L’epoca di queste riflessioni si situa al culmine della quasi ventennale permanenza di Leonardo alla corte milanese degli Sforza (c. 1482-1499), tuttavia già in un testo risalente agli ultimi tempi del precedente periodo di formazione giovanile a Firenze a margine del circuito laurenziano e ficiniano, verso il 1478-1480, questa stessa corrispondenza micro-macrocosmica compariva in una suggestiva veste allegorica. Il tema della consunzione della materia operato dal corso irrefrenabile del tempo, ripreso dal discorso di Pitagora libro XV delle Metamorfosi di Ovidio (testo caro a Leonardo sin dall’età giovanile) introduce alla «similitudine de la farfalla a’ lume»: imitando tragicamente il volo suicida della falena notturna verso la fiamma che l’attrae ineluttabilmente, l’uomo brama il succedersi inesorabile delle stagioni senza accorgersi fatalmente che così facendo «desidera la sua disfazione», perché insita in lui è «la speranza e ‘l desiderio del ripatriarsi e ritornare nel primo caos». Leonardo riconosce in quest’ultima pulsione «quella quintessenza spirito delli elementi, che, trovandosi rinchiusa per anima dello umano corpo, desidera sempre tornare al suo mandatario»: l’anima intellettiva, dunque, come quinto elemento che si aggiunge ai quattro della fisica aristotelica, è interpretata come il vitale riverbero del respiro universale del mondo instillato nel corpo dell’uomo, così da renderlo partecipe della vita cosmica e del ritmo solenne e tragico del suo avvicendamento, scandito dal suo alitare, vale a dire dalla pulsazione del suo respiro. È una concezione di lontana radice stoica, che potrebbe essere pervenuta a Leonardo mediante la sua accertata conoscenza di alcuni testi di Seneca, come il De brevitate vitae e le Naturales quaestiones: «l’uomo è modello del mondo» (Codice Arundel, f. 156 v).
Gli infondati presupposti di tale visione cosmologica, che in una fase più tarda gli si dimostreranno in parte inadeguati, sono per noi meno interessanti della sublime connotazione immaginifica conferita da Leonardo alla riflessione e all’indagine condotte, sin dall’inizio del suo percorso intellettuale, sull’universo naturale. La capacità del suo occhio di porsi come «la finestra de l’human corpo, per la quale la sua via specula e fruisce la bellezza del mondo» (Libro di Pittura, § 28), consente al suo ingegno di operare «a similitudine dello specchio, il quale sempre si trasmuta nel colore di quella cosa ch’egli ha per obietto» (ivi, § 53). Il fenomeno del rispecchiamento, lungi dal qualificarsi per lui come mera e meccanica duplicazione speculare, è riguardato nelle sue implicazioni metamorfiche e mutanti, tali da produrre un vero e proprio sdoppiamento ontologico: «La deità ch’ha la scienza del pittore fa che la mente del pittore si trasmuta in una similitudine di mente divina» (ivi, § 68). Nell’assimilazione della realtà ottenuta attraverso l’esatta esplorazione conoscitiva ottico-sensoriale, il pittore (che è anche filosofo naturale e artifex) è perciò per Leonardo in grado di introiettare le forme naturali, per poi ri-plasmarle in un esercizio di invenzione creativa apparentabile alla stessa creazione divina. Il pittore è cioè un fintore (ivi, § 177) e svela così le potenzialità “demiurgiche” del suo operare: in un brano divenuto giustamente celebre e significativamente intitolato Come il pittore è signore d’ogni sorte di gente e di tutte le cose, Leonardo chiarisce infatti che «ciò ch’è ne l’universo, per essenzia, presenzia o immaginazione, esso l’ha prima nella mente e poi nelle mani, e quelle son di tanta eccellenzia, che in pari tempo generano una proporzionata armonia in un solo sguardo qual fanno le cose» (ivi, § 13). La ri-creazione di una “seconda natura” è resa possibile proprio da quel passaggio dalla mente alle mani attuato mirabilmente mediante l’ausilio del disegno, “verbo figurativo” di Leonardo, in cui si concretizzano e manifestano le sue immagini nella istantaneità e progressività del loro stesso prodursi nella sua mente. Il disegno, dunque, è non solo (e non tanto) il medium grafico attraverso cui dare rappresentazione di quanto si osserva, nella compilazione potenzialmente sterminata di un repertorio del conoscibile o, come pure è stato detto, di un “archivio della visibilità”, ma anche (e soprattutto) un progetto totale di indagine e interpretazione, così dell’universo esteriore, come del mondo interiore dell’artista-scienziato: «Attenderai prima col disegno a dare con dimostrativa forma all’occhio la intenzione e la invenzione fatta in prima dalla tua immaginativa» (ivi, § 73). Disegno del mondo, dunque, inteso come suo design, proprio nel senso di non limitarsi a una sua speculare e mimetica riproducibilità, potendo anzi tradursi in una riconfigurazione concettuale ed estetica, tramite la quale l’artista può reinterpretare e reinventare l’universo naturale.
Una dimostrazione perfettamente esemplificativa di tale accezione delle potenzialità inventive riconosciute al disegno si può ritrovare in una fiera annotazione, dal tono apparentemente criptico, appuntata su un grande foglio di studi geometrici e tecnologici: «Corpo nato della prospettiva di Leonardo Vinci, discepolo della sperienza. Sia fatto questo corpo sanza esemplo d’alcun corpo, ma solamente con semplici linie» (Codice Atlantico, c. 520r, 1490 circa). Negli adiacenti disegni Leonardo dà prova della propria abilità nel rendere la superficie finemente sfaccettata di un corpo circolare, secondo una trasposizione prospettica impeccabile: la proiezione tridimensionale di questo formidabile corpo poliedrico (ispirato ai cosiddetti “mazzocchi”, astrazioni geometriche care alla tradizione del disegno fiorentino quattrocentesco, desunte dai tipici copricapo omonimi), non si cristallizza però in staticità dimostrativa ma si svolge secondo un peculiare dinamismo spiraliforme.
Il tratto inconfondibile di Leonardo, che pare conferire alle forme vita propria, trasfigura questo oggetto in una sorta di corpo organico, simile a un serpente (anch’esso dotato, dunque, di moto e fiato) ma più propriamente assimilabile a un animale fantastico o anche a “invenzione” puramente intellettualistica, prodotta per effetto di «semplici linie» e prescindendo dall’imitazione o riproduzione di un corpo reale. L’annotazione pare quasi attestare una contraddizione tra l’orgogliosa dichiarazione del proprio discepolato alla scuola dell’esperienza e l’affermazione dell’origine puramente speculativa di questo «corpo nato della prospettiva di Leonardo». Eppure, è proprio questo testo a svelare il carattere più profondo e personale del suo naturalismo: dalla comprensione della natura e dei suoi elementi, soprattutto in termini di ritraduzione e rappresentazione figurata, scaturisce la prodigiosa connotazione “demiurgica” dell’opera di Leonardo, di ricreare e plasmare i frutti dell’osservazione della realtà (investigata non solo nella superficie delle sue forme ma anche nella profondità delle sue ragioni) può infatti spingersi fino a produrre una “seconda natura”, la cui immagine può essere rimandata e riflessa solo dallo specchio interiore della mente dell’autore.
*MARCO VERSIERO
È postdoctorant in Études Italiennes presso il laboratorio Triangle alla École Normale Supérieure di Lione (2016/2017). È dottore di ricerca in Filosofia Politica (Università di Napoli L’Orientale) e in Letteratura Italiana Moderna (Istituto Italiano di Scienze Umane - Scuola Normale Superiore di Pisa) ed è stato abilitato dal MIUR come docente universitario associato (2013)
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