di DEBORAH BIANCO
a F.,
per un ritorno atteso, ma mai avuto.
RIFLESSIONI SEMISERIE E NON ESAUSTIVE SULLE ETIMOLOGIE DEL RITORNO
Parlare di ritorno non è una cosa semplice (e Nietzsche ne sa qualcosa). La vita stessa è un ritorno continuo di avvenimenti, di cose già accadute che si ripropongono sotto forme diverse. Noi siamo il risultato di incontri avvenuti nel passato: le nostre nuove apparenze, concesse a noi dall’enorme variabilità del processo meiotico, ricalcano però i medesimi passi. Altrimenti saremmo copie biologiche conformi di una matrice iniziale. E, invece, ritorniamo con un aspetto differente, frutto di geni combinati: sembianze che si presentano ogni volta nella propria singolare unicità e nella volontà distintiva dell’atipicità, eppure in fondo sempre uguali a quelle dei propri predecessori.
Ogni cosa è fatta per ritornare – si pensi all’ondata autunnale di contagi, che tutti scongiuravano, tornando a vivere la vita preCovid-19, ma che alla fine è arrivata (sic!), anche se non era poi così difficile da prevedere –, ma se è vero che siamo esseri materiali, prima o poi faremo ritorno tra le braccia del padre, e per usare le parole di Engels nella Dialettica della natura: «Tutto ciò che nasce è degno di perire. […]. La materia si muove in un eterno ciclo. È un ciclo che si conclude in intervalli di tempo […] un ciclo, nel quale tutte le manifestazioni della materia – sole o nebulosa, animale o specie, combinazione o separazione chimica – sono ugualmente caduche. In esso non vi è nulla di eterno se non la materia che eternamente si trasforma, eternamente si muove»; in effetti, sono le formule epicuree che, con altre parole, fanno ritorno dopo secoli, quindi torneremo trasfigurati (sotto altra forma o solo sotto mentite spoglie?), perché nulla si crea e nulla si distrugge: ma tutto (ri)torna.
Ci affatichiamo da sempre in questo tempo presente che consuma i corpi – corpi che attraversano una vita, ma sono molte le vite che frequentano un corpo –, guardando come spettatori incolumi, o meglio come burattini, il continuo susseguirsi di tirannidi e democrazie che deteriorandosi danno vita alle loro degenerazioni ed evoluzioni, nel continuo flusso dell’ἀνακύκλωσις. Sono poi così reali le nostre scelte, le nostre decisioni o stiamo semplicemente seguendo un flusso caotico che ripete di continuo lo stesso percorso? È un disordine primigenio che traccia sempre nuovi giri come un compasso (che di volta in volta, restringe o allarga il raggio d’azione nella parte scrivente, senza un ordine preciso, rimanendo fissato sempre allo stesso centro)?
Si va, sempre, per far ritorno, si parte ma per ritornare, l’aller pour le retour; l’esule rientra in patria dopo un esilio o una relegazione a cui è stato costretto, le retour après l’exil; si attende qualcuno che ha smesso di amarci o che non ci ha mai amati, le retour de flamme; si torna alla vita, dopo una brutta malattia o dopo un lungo periodo di degenza, le retour à la vie – ainsi la vie est si courte –, con la stessa prepotenza della prima boccata d’aria, quando riemergiamo dall’acqua, dopo aver nuotato in apnea: qualunque forma assuma il ritorno, come dicevamo, non è una cosa semplice. È un processo sofferto ammantato da un’aura di sacralità; sarà un caso che ritorno ha nella sua radice rito? Difatti, in metrica ritorno è la rima ipermetra di rito. È un processo quasi cerimoniale il ritorno che prevede delle norme prestabilite. Ogni domenica si torna in chiesa per la celebrazione eucaristica.
Sotto l’ottica di un credente il ritorno per antonomasia è quello fra le braccia del padre, per cui il ritorno a Dio è un modo blando, eufemistico per descrivere la morte. Ma è anche il ritorno alla fede, il ritorno dopo essersi smarriti, come viene rappresentato nella parabola del figliol prodigo (Lc 15, 11-32), perché Dio è un padre misericordioso, che tutto perdona, finché ci si pente. Dalla profondità dei toni cupi e intensi della tela di Rembrandt, il Ritorno del figliol prodigo, emerge la figura del padre che abbraccia il figlio ritrovato: il perdono, invocato dal figlio, è un abbraccio in ginocchio, con il volto celato per la vergogna fra le vesti del padre. Il perdono, donato dal padre, è l’accoglienza e il ricambio di quell’abbraccio che non perde comunque la compostezza e il decoro della posa (è pur sempre Dio, il Padre).
Augurare un “buon ritorno” è un auspicio rivolto al viaggiatore, affinché possa far ritorno a casa sano e salvo. Il ritorno è simbolo di vita nel suo manifestarsi attraverso il percorso degli astri: «facea ne l’oriente il sol ritorno», così Tasso descrive il sorgere del sole; il percorso già tracciato e delineato, che in realtà muta continuamente, per cui ogni giorno è sempre nuovo.
Per i greci esistono più vocaboli che indicano il ritorno, di certo, il più famoso è il νόστος. Al plurale il termine oἱ Nόστοι indica “i Ritorni” in patria degli eroi achei. La materia del ciclo epico troiano (che narra della guerra di Troia e degli avvenimenti successivi, appunto i ritorni) è giunta a noi solo grazie ai poemi omerici, il resto è andato perduto o ci è pervenuto in forma frammentaria. Esiste una vera e propria geografia del ritorno, una geografia che non comprende solo i percorsi tracciati dalle rotte marittime, essa abbozza una scrittura e insegue una traccia del dolore che il ritorno in patria causerà ai suoi protagonisti: tutti i ritorni, infatti, saranno violenti o sofferti, qualcuno non tornerà affatto, l’eroe per antonomasia, Achille, morirà in battaglia, a causa della sua unica debolezza. Agamennone pagherà tutti i crimini commessi – il più violento, l’uccisione della figlia Ifigenia per ingraziarsi il favore degli dei –, il ritorno a Micene gli costerà la vita e la sua morte darà inizio a una scia di sangue che avrà fine solo con Oreste, suo figlio, e il ciclo tragico a lui dedicato, l’Orestea. Il ritorno-emblema dell’epica, però, è senz’altro quello del secondo (ritenuto tale per convenzione) poema omerico, l’Odissea. La negazione del ritorno è il vero leitmotiv del componimento, un espediente letterario che rimanda di fatto il ritorno a casa di altri dieci anni, permettendo, però, la descrizione di luoghi mai visti. Odisseo (Ὀδυσσεύς, da ὀδύσσομαι, colui che è odiato o irato) diventa il primo esploratore ante litteram. Il suo ritorno a casa è talmente travagliato che il linguaggio comune accoglie l’espressione «è un’odissea!» per indicare una vicenda colma di disgrazie e di peripezie. Odisseo, o in latino Ulisse, con la sua curiosità e con il suo ingegno ispirerà generazioni di scrittori (Dante, Foscolo, Gozzano, Joyce). L’unico ritorno in patria in serenità è quello di Nestore (Νέστωρ), il re saggio di Pilo, che conserva nel nome i residui del verbo νoστέω (io ritorno, io torno indietro).
Ci sono altri termini in greco che indicano il ritorno, l’azione del ritornare come il verbo ἐπιστρέφω (volgo, rivolgo, volto, dirigo verso, indietro, ma anche ritorno, torno e infine, ritorno nel senso di pentirsi); il sostantivo ἐπάνοδος (da ἐπανιτάω, io ritorno) che indica il movimento dell’ascensione, del salire, ma anche del ritorno, dell’epilogo e della capitolazione; ὑποστροφή, dal verbo ὑποστρέφω, designa l’azione del voltarsi perlopiù: voltarsi, rivolgersi, voltarsi indietro, girarsi indietro; così anche ἀπονόστησις, il ritorno, che deriva dal verbo ἀπονοστέω (torno, ritorno in patria, a casa). Infine c’è un termine che designa l’andata e il ritorno, διαδρομή, dal verbo greco διατρέχω, io corro attraverso, traverso, percorro, corro, scorro, penetro, giungo.
I latini sono sempre più parchi e morigerati, di fronte alla vastità immaginifica dei greci, per cui la penuria di termini si fa sentire: il ritorno è reditus, da cui volgarmente deriva il nostro termine rendita, entrata, reddito. Ma reditus è il ritorno dalla battaglia, il ritorno dal foro. Cesare usa l’espressione aliquem reditu intercludere, impedire il ritorno a qualcuno. Il De redito suo è il racconto in distici elegiaci di Namaziano che descrive il viaggio di ritorno da Roma fino in patria, la Gallia, in cui viene fuori la decadenza dell’impero romano, ormai imbarbarito dalle popolazioni che aveva inglobato (siamo agli inizi del V secolo).
Per il cristiano il ritorno al Padre rivela un moto di ascensione dell’anima, che ricalca il desiderio di far ritorno nella patria celeste che deriva dalla radice verbale indoeuropea iṣ, che in sanscrito conserva anche il significato di cercare, desiderare. Per gli antichi indoeuropei, infatti, il cielo era abitato da Varuṇa, la divinità più antica della loro cosmogonia e il legame espresso dalla consonante s in iṣ, assume una valenza religiosa forte col significato di relazionarsi, comunicare con il regno dei defunti e, quindi, esprime il desiderio di fare ritorno nella patria celeste. Il rapporto – fra iṣ con valore di relazione col divino e il desiderio – è confermato dalla radice indoeuropea sid, ovvero legarsi (si) e alla luce (d), da cui deriva il latino sidus-eris, stella, e da cui a sua volta si sviluppa la parola desiderium, desiderio, ovvero che discende (de), dal cielo stellato (sid).
Se per una certa tradizione il ritorno al regno del Padre o al regno ultraterreno è visto come moto ascensionale, che va verso il cielo e le stelle, per un’altra grande tradizione questo movimento è accompagnato dall’elemento dell’acqua. Per i greci il defunto viene rappresentato come colui che fa ritorno alle acque dell’Oceano (il tuffatore di Paestum); esiste, inoltre, nel mondo greco-romano un traghettatore delle anime, che ha funzione psicopompa, il Caronte, ricordato anche da Dante. Dalla radice indoeuropea nak, muoversi nell’acqua – che deriva da (k) muoversi tortuosamente e (na) nell’acqua – si ricavano i verbi greci νέω e νήχω, nekho (nuoto), ma anche νεκρός, nekros (morto), e infine il latino neco (uccido).
Torniamo al ritorno: esso non è altro che un sostantivo ricavato del verbo ritornare. Il verbo tornare grazie al prefisso ri- assume un valore iterativo, di ripetizione e vuol dire letteralmente tornare di nuovo, ma dove? Ovviamente al tornio, dal latino tornus, che è traslitterato dal greco τόρνος , il compasso, il tornio, e quindi il verbo τόρνόω o il medio-passivo τόρνόομαι, disegno in tondo, in forma circolare. Il tornio (oggi comunemente diffuso più dell’antico torno, dall’uso del plurale torni, ovvero tornii) per definizione è una macchina, utilizzata per la lavorazione di materiali che sono posti in rotazione (si ha l’idea del tornio del vasaio se si pensa alla scena del film Ghost e alla lavorazione dell’argilla da parte di Demi Moore che modella in maniera sensuale un vaso sul tornio). Se si dice di una donna che “ha delle gambe tornite”, si pensa a delle belle gambe, armoniose, rotonde, come se fossero lavorate al tornio!
Ma un ulteriore giro di pensieri ci porta da tornio a turno, dal francese antico torn, fino al francese moderno tour, e quindi giro. Il francese utilizza retour per ritorno, ma il tour è anche il giro (il Tour de France è una gara a tappe e la bici ne è protagonista – veicolo formato da un telaio e due “ruote”; il Grand Tour era il giro delle città più importanti d’Europa, intrapreso dai giovani aristocratici o borghesi affinché la loro educazione ne potesse trarre utilità e beneficio). Tutti questi capogiri per tornare al cerchio, alla circolarità, alla perfezione, ma anche al caos primigenio. Tutte le religioni o le discipline spirituali prevedono un ritorno delle anime o una forma di reincarnazione l’orfismo, il pitagorismo, il buddismo, e dulcis in fundo il cristianesimo: Cristo è tornato dalla morte il terzo giorno, Cristo è risorto. Nel mondo greco-romano la κατάβασις (a cui si contrappone l’ἀνάβασις) era la discesa dell’anima nell’Ade – ma poteva anche descrivere la discesa dall’interno verso il mare –, nel mondo ultraterreno e solo i morti effettuavano questo cammino, ma esistono delle eccezioni: personaggi vivi che ritornano poi alla vita (Odisseo, Eracle, Enea, Sesto, Orfeo), ma se pensiamo al poema fondante della nostra tradizione letteraria, la Commedia dantesca, lo stesso Dante immagina un viaggio nei regni dell’oltretomba. Un ritorno dal regno dei morti lo compie Geo Josz, protagonista di una delle storie ferraresi, Una lapide in via Mazzini, di Giorgio Bassani: in questo caso il ritorno è l’ἀνάβασις, Geo è un fantasma di una vita precedente, un revenant; lui torna a Ferrara e scopre da una lapide che i suoi concittadini lo credono morto, ma la sua presenza disturba un altro ritorno, il ritorno alla vita dei borghesi, che si lavano di dosso le colpe dell’indifferenza di fronte agli eccidi nazifascisti e a Geo non resta che sparire, perché sul volto porta i segni dei ricordi più atroci: l’essere ebreo.
Uno dei viaggi di ritorno più suggestivi della mitologia classica è la discesa negli Inferi di Orfeo: persa la sposa Euridice, a causa del morso di una serpe (secondo il racconto ovidiano), il cantore della Tracia si reca dalle divinità del regno delle ombre, Persefone e il suo sposo Ade, supplicandole, in nome dell’Amore, che ha unito anche loro e che fu causa del famoso ratto. Orfeo riesce a convincere con il suo canto e con il ricatto di rimanere anche lui lì (restare nel regno dei morti per un vivo vuol dire morire) di riavere Euridice – ottiene il ritorno –, a patto che durante il viaggio non si volti indietro a guardare la giovane sposa. Ma la voglia e la bramosia dell’amata fa girare il capo di Orfeo, che vede scomparire Euridice per la seconda volta, risucchiata dal regno dei morti, mentre gli tende le braccia come a volersi aggrappare. Un amore così intenso che porterà Orfeo a chiedere nuovamente Euridice indietro, ma che, ahimè, non vedrà soddisfatta la sua richiesta! L’amore di Orfeo viene giudicato negativamente nel Simposio di Platone (proprio per la mancanza di sacrificio, perché Orfeo non riesce a trattenersi e si volta), ma è un amore smodato, tanto feroce da permettere quasi il ritorno, è l’amore di una forza così stravolgente che muove ogni cosa (Dante dixit).
Una forza nondimeno irrazionale e un continuo ritorno emerge dalla vicenda di Sisifo - il personaggio della mitologia greca, spesso associato a Odisseo e alla sua genealogia, in alcune varianti del mito. Protagonista di una serie di vicende, Sisifo è un tipo astuto e sveglio, tanto furbo che la sua scaltrezza verrà punita dagli dei: la condanna di Sisifo è quella di portare costantemente in cima a un monte un masso, che una volta giunto sulla sommità del monte, rotola di nuovo in basso. Nell’interpretazione camusiana del mito il continuo sollevare il masso e portarlo in cima, nonostante ritorni in basso, è paragonabile agli sforzi dell’uomo e al suo opporsi all’assurdità e alla mancanza di senso dell’esistenza stessa.
Il ritorno assume una diversa accezione nel romanzo di Alexandre Dumas: Edmond Dàntes, sotto la falsa identità del Conte di Montecristo, ritorna a Marsiglia. Il ritorno corrisponde all’attuazione della vendetta contro i suoi calunniatori, una rivincita, che solo dopo il pentimento di questi ultimi, si tramuterà in perdono.
Questo viaggio attorno al ritorno, o addirittura nel ritorno, fatto di interpretazioni più o meno autorevoli o sensate, ci fa soffermare sulla sofferenza che causa il ritorno – i ritorni dolorosi degli achei, la sofferenza di Ulisse nel rievocare a Nausicaa e ai Feaci il viaggio di ritorno – e cosa indica letteralmente la sofferenza del ritorno se non il termine nostalgia, che etimologicamente è il dolore del ritorno (da νόστος, ritorno, e ἄλγος, dolore, sofferenza)? Un sentimento di malinconia che accompagna i ricordi, ciò che è stato e che torna in mente: Mi ritorni in mente è un brano di Lucio Battisti, su testo di Mogol, in cui si rievoca nostalgicamente la donna amata; Ritornerai è il brano di Bruno Lauzi, interpretato successivamente anche da Franco Battiato, in cui si attende il ritorno dell’amata, dopo un amore finito: il brano è un bolero, in cui si ripete la stessa strofa, accompagnato da un ritmo cadenzato.
Quanto e quale dolore causa il ritorno? Il dolore nell’idea dei greci è paideutico, dalla sofferenza deriva, quindi, la conoscenza. Ma ne siamo poi così sicuri? Nell’immenso mare di immagini da cui siamo sommersi, negli ultimi anni, una è divenuta iconica: il corpo inerme e senza vita del piccolo Alan Kurdi, il bambino siriano morto annegato nel 2015, il cui corpo è stato ritrovato sulle spiagge turche. Il ritorno del suo corpicino esanime, restituito dal mare, ha impresso nelle nostre menti una ferita lacerante che sanguina per ogni morte nel Mediterraneo. E, quel corpo diventa, suo malgrado (a dispetto dell’inconsapevole innocenza), un corpo eucaristico, il nostro capro espiatorio.
Ci sono casi di (non) ritorno, che egualmente causano dolore, che straziano all’inverosimile, il cui ritorno viene rimandato per nascondere una verità inumana: è il caso del mancato ritorno dei vestiti e degli oggetti personali di Giulio Regeni, il giovane ricercatore seviziato e ucciso in Egitto nel 2016. Il corpo di Giulio, con addosso i segni delle efferate violenze, viene ritrovato nudo in un fossato, nei pressi del Cairo. Ma dove sono i suoi vestiti? Che fine hanno fatto? Il mancato ritorno dei suoi effetti personali causa, da un lato un enorme ritardo nelle indagini e difatti ostruzionismo, dall’altro uno strazio angosciante che logora chi cerca la verità, seppure aberrante.
Altre volte si attende il ritorno perché porti alla vita, e, invece, quel percorso di ritorno è solo la strada che conduce alla morte. In questo senso, la vicenda di Alfredino Rampi ne è l’esempio irrefutabile. Per sessanta ore gli italiani attendono, per la prima volta in diretta televisiva (10-13 giugno 1981), che un bimbo di sei anni, Alfredo Rampi, chiamato Alfredino, venga tratto in salvo, dopo la caduta in un pozzo artesiano; è il primo reality show de facto in Italia, che ha come fine ultimo il ritorno alla vita. Gli occhi famelici del pubblico, spettatore di un supplizio, restano incollati allo schermo. Ma la disfatta è clamorosa e coincide con un altro corpo esanime.
La sofferenza del ritorno ha, dunque, luogo nei corpi, il corpo dell’altro, del prossimo; un corpo che potrebbe essere il nostro, così simile, ma così lontano, è oggetto della sofferenza. Ma il corpo dell’altro è anche l’oggetto del desiderio – encore, en corps – e amore chiama amore. Prendiamo in prestito il titolo di un intervento di Barthes, per un convegno su “Stendhal e Milano”, On échoue toujours à parler de ce qu’on aime. In Italia è stato tradotto con Non si riesce mai a parlare di ciò che si ama, ma come spiega anche il traduttore, il verbo échouer vuol dire arenarsi, che in maniera figurata, dà un valore diverso all’espressione: non si riesce a parlare mai di ciò che si ama, ma ci si arena sempre lì e si finisce sempre col parlare di ciò che si ama, pur fallendo. Si ritorna perciò a parlare sempre e solo del discorso amoroso, e del desiderio dell’altro, e l’angoscia non è per Lacan un segno del desiderio? Per Lacan desideriamo l’altro, senza saperlo, ma lo prendiamo per oggetto del nostro desiderio; identifichiamo l’altro, come oggetto, di ciò che manca a noi stessi. Perché, in fondo, anche quando parliamo dell’altro, non stiamo forse parlando di noi stessi?
E allora l’altro ritorna, ma quando non lo stiamo più aspettando, «ancora tu / ma non dovevamo vederci più» – ancora Battisti –, a cui sembra ribattere Morgan, nome d’arte di Marco Castoldi, con le parole di Altrove: «ho sprecato tutta l’energia / per il ritorno» … eh sì, quanto costano i ritorni! Chiedetelo a Raiola (quanto costa) il ritorno di Ibrahimović al Milan, e non è, forse, questo ritorno l’attuale fortuna del Milan?
Qualunque sia la forma del ritorno (soprattutto per gli innamorati intermittenti «perché la vita è corta / e se ritorni stavolta non andare», Frah Quintale e Giorgio Poi), in questa breve ricerca di un’origine, condotta con spirito vivace e semiserio, abbiamo incontrato un elenco ragionato di etimi e di accadimenti, che provano a indicare una strada, un percorso…ma forse la via è quella dell’eterno ritorno delle cose, che ineluttabile c’attende: e non ci resta, perciò, che scegliere (pur sapendo che la scelta è un’illusione), lasciandoci travolgere dal ciclo (del tornio)!
[A causa di un problema nella codifica dei font, la piattaforma potrebbe non consentire una corretta visualizzazione degli accenti in greco antico.]
*DEBORAH BIANCO
Laureata in Filologia Moderna all’Università della Calabria. Si occupa di letteratura italiana contemporanea, di critica letteraria e di cinema. Ha in preparazione un articolo sulla poesia di Bassani. Su di sé ha sempre molto poco da dire.
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