di DEBORAH BIANCO
Come senza specchio,
e senza veder l’oggetto si possa veder
una imagine pendente nell’aria.
Giovanni Battista Della Porta [1589]
Per simulare una parvenza di cominciamento, dando forma al simulacro dell’inizio – come se si potesse iniziare dal principio – si indagherà, senza pretese di compiutezza, l’universo fantasmatico dell’immagine così come si manifesta, qui e ora, nella forma-libro del Diorama di Marco Magurno, edito da Il Saggiatore nel 2016. Ricalcando l’abusato interrogativo di Stanley Fish, bisogna domandarsi se c’è un testo in questa classe, o meglio occorre chiedersi se un fluire continuo di immagini possa trovare come sua sede naturale la forma statica del libro. All’interno di una quotidianità in cui la realtà virtuale anestetizza la possibilità di esperire un contatto con il reale, Magurno non si accontenta del supporto istantaneo e caduco di una qualunque piattaforma sociale (Facebook, Instagram & associati), che rimane comunque suo campo fecondo di ricerca.
Nel routinario scorrimento della homepage, quel che resta dell’homo sapiens offre lo sguardo intorpidito al sovraccarico e al martellamento di immagini, dalle gif ai meme più virali. Il movimento che compie lo spettatore allena il dito per le maratone domenicali sui sofà (non più rifugio nello studio dello psicologo, ma elemento di arredo essenziale per l’immersione tecnologica), tuttavia addormenta l’occhio che è sempre più indolenzito e assuefatto da ologrammi di gattini e video in loop. Un tale testimone della vita surrogata potrebbe non cogliere la portata di Diorama, che reca in sé il me fecit di Magurno. Ebbene sì, malgrado La Mort de l’Auteur, Magurno non è semplice mediatore, ma diviene, si fa entità prima che causa il movimento delle immagini senza però essere mossa. Non chiunque avrebbe potuto allestire un così bell’inganno. Per quanto le reti sociali riescano ad abbagliare al punto tale da far credere a una qualunque universitaria annoiata – dotata di una protesi artistica da supermarket – di essere la nuova stella dello spettacolo di un mondo sempre più immateriale di cui Debord diviene il profeta.
L’io-Magurno scompare di fronte al testo, ma c’è, si muove, coperto da un velo che al tempo stesso disvela l’immagine. Il testo sembra farsi da sé, Diorama per partogenesi, gli schermi implodono, sezioni impercettibili e immateriali subiscono modificazioni, cambiamenti: è la produzione iconica deflagrata. Diorama – che per definizione, come riporta lo stesso autore nel testo, è un plastico o un’ambientazione in scala ridotta – è il trompe-l’oeil di Magurno, è l’illusione del reale, senza dissimulare il reale, in cui qualsiasi tensione iconoclasta svanisce, lasciando spazio alla simultaneità e alla sincronicità dell’immagine, la quale si ripete, senza differimento, nella sua singolarità, in ogni momento.
Diorama, l’opera facta in fieri, di Magurno è il testo come paradosso, in cui menzogna e verità sono la trama e l’ordito del tessuto. Sono due le sezioni che si mostrano al lettore, denominate Supermondo I e Supermondo II, in cui l’immaginario che si profila è quello del nostro presente traslato. Il caleidoscopio allestito da Magurno passa dalle gemelline di Shining, duplicate all’infinito ed emblema in assoluto del doppio, alla potentia evocativa della Merkel che richiama con la sua posa il segno di Auramoth. E si sa, per barthesiana memoria, che un segno è ciò che si ripete. E la Merkel si ripete cromaticamente nel suo tailleur. In veste-vece di McLuhan, un verosimile Silvio Berlusconi, con alle spalle il motto che ha reso lo studioso canadese noto ai più, però nella variante dioramatica de “Il medium è il medium”. Il sempreverde Padre Pio è il vero conquistatore del mondo: tra ex voto, icone e statue è il più ubiquo fra i santi (in tutte le forme e formati) e il protettore dioramatico per eccellenza. Contro il logorio della vita moderna non più Cynar (che pur compare come réclame-ossessione in un momento da mémoire eighties del vissuto di Magurno), ma iniezioni distillate del flusso dioramatico.
In principio era il λóγος, ma come apprendiamo dalla quarta di copertina «in principio fu lo schermo. Quindi lo schermo esplose, in una miriade infinita di schermi. Le immagini presero vita, proliferarono»; il divenire continuo, in crescendo, di immagini che proliferano riporta il segno di un movimento, ma è un movimento illusorio, perché è il movimento del non-vivente. Nell’universo Diorama l’immagine è corpo immateriale moltiplicato per sé stesso, divenendo molteplicità mutevole e immutata, assoluta per la totalità, ma relativa per il frammento. Il vero movimento procede però nella narrazione di Magurno, che non è semplice ornamentum, banale didascalia, ma è composizione, trasformazione in corpo scritto. È la parola scritta che si svincola dal ruolo vicario di esegesi all’immagine – data la mole enorme di immagini in Diorama la parola scritta sembra in apparenza accessorio – e diviene centrale.
L’autore è dotato dell’enargeia, la forza di Magurno sta nella capacità di rendere visibile agli occhi, ante oculos ponere, narrando, anche quando non ha nessun corredo iconografico. Il lettore fin dall’introduzione è immesso nella delicata questione del contemporaneo, problema di cui magistralmente si è occupato Agamben e quelli a cui Agamben si è ispirato (Barthes, Nietzsche). Ma è grazie al racconto di Poe, Una discesa nel Maelström, che Magurno può spiegare la condizione del contemporaneo, l’uomo travolto dal gorgo informatico, consapevole di essere del suo tempo, di trovarsi lì, ma al tempo stesso alieno alla sua condizione, osservatore esterno. La tensione narrativa aumenta quando viene trascinato nella narrazione anche McLuhan, il pioniere del nuovo tempo della comunicazione. Da lì si entra nel Supermondo, nel vortice delle immagini: «nel mondo rovesciato dove» – come dice Debord – «il vero è un momento del falso».
«La visione, che non è visione» di Magurno è l’atto fondativo dell’autonomia iconica, dell’esplosione degli schermi, del flusso ininterrotto. Magurno crea un moderno mito della caverna platonica, in cui l’eternauta narcisista e indolenzito, non è solo spettatore di un’illusione generata da un fuoco, ma anche partecipante attivo di quell’illusione, proprio come il marinaio di Poe. Le immagini appaiono come assilli, ossessioni, rimanenze. Ritornano come concatenazioni rizomatiche, come sintomi della molteplicità. Sono i fantasmi non esorcizzati della veglia, sopravvivono al significato, divenendo revenant di modelli sostitutivi del reale. Ma, allora, cosa sarà mai questo reale?
*DEBORAH BIANCO
Laureata in Filologia Moderna all’Università della Calabria. Si occupa di letteratura italiana contemporanea, di critica letteraria e di cinema. Ha in preparazione un articolo sulla poesia di Bassani. Su di sé ha sempre molto poco da dire.
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