di DANIELE GARRITANO
Sparire, senza lasciare tracce. È possibile?
Una ricca tradizione letteraria e saggistica, radicata nel suolo profondo della cultura occidentale, ci dice che anche il gesto della cancellatura, in fondo, lascia una traccia. Si tratterebbe, nell’intenzione irrealizzabile di farla davvero sparire nel nulla, di coprire un segno, dissimulandolo sotto un altro inevitabile segno. Logica additiva della cancellazione: non si può sparire nel nulla, così come non si crea nulla dal nulla, ex nihilo; il fatto stesso di essere esistito implica la persistenza di un resto, una frazione materiale lasciata per strada, l’indizio di un’esistenza passata.
Qualche anno fa, quando non erano ancora così à la page apericena e serie tv, era di moda citare registi coreani dai nomi impronunciabili, sfoggiando una cultura cinematografica cosmopolita e libera dalle gabbie stilistiche e concettuali dell’Europa o, ancor peggio, degli Stati Uniti. Uno dei film più chiacchierati in quel periodo presentava la storia di un ragazzo senza fissa dimora, capace di entrare nelle case e di sparire al loro interno, come un inquilino segreto di cui nessuno si accorge. Ferro 3 di Kim Ki-duk (2004) – titolo ispirato alla nota mazza da golf usata nel momento clou del film – racconta una storia incardinata nell’ingranaggio dell’amore, della disciplina e della violenza riparatrice. Il controllo del corpo, la capacità quasi illusionistica di renderlo così sottile e impercettibile da farlo diventare trasparente; la lettura degli spazi con i quali il corpo del protagonista interagisce fino a scomparire alla vista del nemico; la conoscenza delle macchie cieche e dei punti oscuri del campo visivo umano. Questi elementi parlano di un desiderio profondo, forse inconfessabile, da sempre piantato come un seme nel terreno dell’immaginario umano.
Si tratta del desiderio di vedere senza essere visti, il voyeurismo come pratica universale e agente storico; non soltanto come pratica erotica, poiché radicata ai meccanismi del potere e della vita quotidiana. Talmente evidente che non ci sarebbe bisogno di citare l’ormai classica intuizione di Gregory Bentham con il suo Panopticon, ripreso e commentato magistralmente da Michel Foucault in Sorvegliare e Punire. Situazione estrema, quella del carcere, ma per questo ancor più esemplificativa: chi detiene il potere vede tutto senza essere visto; al contrario di chi lo subisce, che è visto senza ricambiare lo sguardo. Dall’arte della caccia, vecchia quanto l’uomo, ai trattati millenari di strategia militare, dalle operazioni di spionaggio internazionale, fino alle più recenti operazioni di hackeraggio, la sopravvivenza del potere ha sempre dimostrato di trarre vantaggio dall’essere invisibile, dall’agire senza essere riconosciuto, dal vedere senza e essere visto.
Sparire dal campo visivo dell’altro, senza tuttavia perdere il contatto visivo con l’altro, sia esso nemico o ospite (i due opposti – hospes e hostis, l’ospite e l’avversario – sono apparentati etimologicamente nella lingua latina, in nome della comune estraneità rispetto alla casa). Proprio il latino ha dimostrato per secoli di essere la lingua del potere per eccellenza, sopravvivendo per molti secoli alla fine dell’impero romano. Studiare oggi una lingua inattuale (morta o «scomparsa», si direbbe con approssimazione) riserva dei vantaggi che non si possono sottovalutare. Uno di questi riguarda la lettura di alcuni meccanismi del potere nella sua situazione di partenza, nel suo grado zero che consiste nella dimensione domestica, ossia la casa. L’amico e il nemico, hospes e hostis, sono tali esclusivamente in relazione alla casa; si tratta di due persone estranee alla casa che non presentano differenze sostanziali, se non quella di essere accolti o respinti sulla soglia domestica. Dentro o fuori, inclusione o esclusione, persona grata o non grata: si tratta dell’atto fondativo della sovranità e non esiste via di mezzo nella lingua del potere. Far sparire il nemico? Non esattamente, poiché ogni forma di potere ha bisogno di un nemico esterno da insultare, per compattare ranghi interni e conservare la sua vita. Perché condurre fino a questo punto il discorso legato al campo visivo, alla cancellatura, allo sparire? Forse per ribadire che ogni tentativo di passare un colpo di spugna sulla memoria deve deporre le armi – la spugna, in questo caso – di fronte ai grumi che si formano e che resistono anche ai solventi più forti. Far sparire i migranti dal campo visivo dei cittadini italiani, farli affondare nel fondo nero del Mediterraneo o nelle celle del deserto libico: nella logica del potere questi episodi richiamano alla memoria pezzi di un’eredità storica le cui tracce sembrano essersi perse, sepolte sotto i cumuli di macerie che sostengono edifici e istituzioni della nostra civiltà. Pogrom, deportazioni, colonialismo e pulizie etniche hanno costellato la storia europea non soltanto nell’ultimo secolo. Sono tracce che non possono essere cancellate, fanno parte del nostro patrimonio culturale al pari della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Non è possibile cancellare questa eredità, anche quando sarà morto l’ultimo superstite. È possibile, invece, chiudere gli occhi di fronte ai segni di una catastrofe imminente, illudendoci che quando li avremo riaperti tutto sarà passato.
Per questo numero tematico dedicato a #Sparire, che fa seguito a #DigestioniCritiche e #Ossessioni, Zetaesse ha lanciato come di consueto una call for entries. Le risposte sono state numerose e di respiro molto ampio; l’esplorazione del tema ha assunto così un carattere polifonico, tenendo insieme cammini e oggetti diversi, accomunati dal denominatore comune della sottrazione, dell’invisibile, dell’assenza. Fra i contributi che presenteremo nel corso delle settimane, ci sarà una lettura dell’eredità fotografica, prodotta in gran parte ad uso celebrativo, proveniente dai fronti italiani della Grande Guerra. Erica Grossi ci ha offerto un’analisi dei «ritratti di truppa» per mettere in luce la sparizione del soggetto umano nella tensione che si apre tra il fragile corpo individuale e il corpo sociale militare nel quale la retorica commemorativa di quegli eventi assorbe la massa umana che li ha tragicamente vissuti.
Fra i contributi di cultura musicale proporremo un intervento di Eda Özbakay sulla dissolvenza del suono in John Cage e Lou Reed, assenza intesa, prima di tutto, come parte costitutiva del suono stesso: da 4’33’’ di Cage, una delle composizioni più famose e controverse nella storia della musica, a Vanishing Act di Reed, compiremo un viaggio polifonico per soffermarci sul silenzio e sulla sua voce.
Nella nutrita sezione fotografica ci sarà spazio per una gallery di Ludovica Bastianini (In your place) che guarda al fenomeno drammatico delle spose bambine. Sparire dietro un velo può rappresentare un’esperienza di lutto, con cui non sempre riusciamo a metterci in relazione. Il bianco dei merletti – conservati dalla madre della fotografa in una vecchia scatola – diventa, allora, il tramite per mettere alla prova la nostra comprensione della realtà.
Molti altri contributi arricchiranno la sezione visiva con illustrazioni e gallerie fotografiche, mentre nel campo testuale ci sarà – oltre ai lavori già citati – uno spazio consistente dedicato al racconto. Ma non possiamo né vogliamo svelare tutto, è meglio che qualcosa resti ancora, seppur per poco, in una zona non completamente illuminata, nel cosiddetto cono d’ombra che rende possibile ogni eclissi.
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