di DANIELE GARRITANO
Dietro ogni concezione della storia (ciclica, lineare, continua, discontinua, progressiva, regressiva, ecc.) si riconoscono i contorni di una certa esperienza del tempo che condiziona il tentativo di rappresentare complessivamente il corso delle vicende umane. Questo tipo di condizionamento agisce come una potenza implicita, un’intelaiatura talmente interiorizzata a livello culturale da custodire ciò che potrebbe definirsi come il carattere di un’epoca. Sarà forse banale sottolineare come anche la tarda modernità inizi con un ripensamento radicale dell’esperienza del tempo, attraversando una crisi ed elaborando una critica degli ideali di continuità temporale orientata dalle forze del progresso. L'arte e la cultura del primo Novecento esibiscono come un’acquisizione ormai irreversibile l’aspetto discontinuo e frammentario del tempo vissuto. Sempre più rilievo assume la dimensione dell’accadere, del farsi evento istantaneo del tempo. Nel bagliore di questa scintilla si colloca il punto di rottura, in cui la continuità della storia si scardina, strabordando dai binari del progresso, secondo una metafora ferroviaria cara alla concezione della storia, alle innovazioni tecnologiche e alla cultura del XIX secolo
Questo deragliamento si collega inevitabilmente a una trasformazione dell’esperienza del tempo sul piano singolare, in cui l’istantaneità diventa per l’individuo uno schema mentale, un’abitudine di consumo, un marker fondamentale per riconoscere gli eventi come punti di svolta tra le pieghe della vita. Eppure non possiamo nasconderci che l’esistenza soggettiva necessita, per riconoscere se stessa, della possibilità di collocare gli eventi in una dimensione di continuità, costruendo una scansione ordinata attraverso una trama ordinatrice della continuità temporale.
Per comprendere la relazione fra questi due modi di rappresentare il tempo sarebbe utile rivolgere lo sguardo alla cultura psicoanalitica, una “creatura” del secolo scorso che esibisce un lavoro sul tempo come elemento carico di contraddizione e di conflitto. Secondo Freud, all’interno dell’apparato psichico si scontrano due bisogni differenti e apparentemente inconciliabili: da una parte il “senza tempo”, o meglio il tutto-presente dell’inconscio, dall’altra il bisogno dell’Io di conferire una scansione temporale al magma degli avvenimenti, fino a far diventare questo magma la certezza della propria costruzione o ri-costruzione biografica. Nella sua dimensione di forza motrice degli affetti, il tempo diventa un territorio di battaglia, attraversato e segnato dai bisogni contrapposti del tutto-presente e della cronologia.
È possibile affrontare questa tensione, irrisolvibile e feconda nell’esistenza di ciascun soggetto, attraverso il concetto freudiano del romanzo familiare. Secondo la definizione dell’Enciclopedia della psicoanalisi di Laplanche e Pontalis, la nozione di Familienroman fu coniata da Freud per «designare delle fantasie con cui il soggetto modifica in modo immaginario i suoi legami con i suoi genitori (immaginando, per esempio di essere un trovatello). Tali fantasie sono basate sul complesso di Edipo» (Laplanche e Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi, vol. 2, p. 558). Si tratterebbe, in estrema sintesi, di una rielaborazione immaginaria dei ricordi, basata su motivazioni edipiche, attraverso cui il soggetto riscrive i capitoli iniziali della sua autobiografia, inserendovi elementi di fantasia e, soprattutto, aprendo uno spazio di indistinzione in cui la storia tende costantemente a confondersi con il suo racconto. Seguendo questa traccia, l’infanzia sembra porsi come il momento chiave in cui si accende il conflitto temporale fra continuità e discontinuità che investe il soggetto, e la sua rappresentazione diventa il primo terreno in cui questa differenza sprigiona un'energia creativa.
Una considerazione implicita, ma da non sottovalutare, riguarda i percorsi sotterranei della memoria. La trama temporale tessuta dal soggetto si caratterizza per un intreccio di esperienza vissuta e vita inconscia. Per chiarificare la dimensione anfibia in cui si forgiano i ricordi (fra realtà e finzione, fra evento e ricordo), sarebbe utile rivolgere lo sguardo alla nozione freudiana di ricordo di copertura. Esso definisce un racconto in assenza di evento, in cui «non si conservano soltanto alcuni, ma tutti gli elementi essenziali della vita infantile. È solo questione, attraverso l’analisi, di imparare a ricavarli. I ricordi di copertura fungono da rappresentanti degli anni dimenticati dell’infanzia con la stessa adeguatezza con cui il contenuto manifesto del sogno rappresenta i pensieri onirici» (Freud, Ricordare, ripetere, rielaborare, in Opere, vol. 7, p. 354).
Nel riferire il proprio romanzo familiare il soggetto non ha alcuna consapevolezza del fatto che sulla scansione temporale, con cui viene tracciata la costruzione biografica, si affaccia anche un tempo altro, il tutto-presente dell’inconscio. Il romanzo familiare sembra ignorare – o rimuovere – la doppia temporalità che insiste sulla vita affettiva; sembrerebbe addirittura coronare il bisogno dell’Io di dare comunque una sequenza ordinata agli eventi. Un primo ascolto del racconto del paziente restituisce all’orecchio dell’analista l’apparente risoluzione del conflitto ardente fra i due tempi dell’apparato psichico: quello sotterraneo e assoluto dell’inconscio – ciò che è accaduto rimane sempre-presente – e quello ordinato e vettoriale espresso dalle altre istanze psichiche. Solo dopo che il romanzo familiare sarà sottoposto al lavoro di scavo e di interpretazione della “sonda analitica”, il soggetto percepirà quanto il passato sia attivo, presente nel presente, e come il tempo sia trascorso invano, almeno rispetto alla complessità di alcuni nodi affettivi.
Per mettere meglio a fuoco la produttività di questo conflitto temporale, si dovrebbe considerare anche la categoria interpretativa della realtà psichica. Si tratta di una chiave fondamentale per comprendere come l’inconscio arrivi ad elaborare, con l’azione del desiderio, livelli di realtà che da un lato presentano caratteristiche assimilabili a quelle della realtà materiale (coerenza, coesione, resistenza), mentre dall’altro non sono separabili dai fantasmi dei desideri inconsci. Il discorso freudiano si situa sul crinale di un dualismo (realtà materiale-realtà psichica) che non sembra potersi risolvere in modo immediato. Inoltre, da un punto di vista produttivo, investe il problema teorico del rapporto irriducibile «tra il fantasma e gli eventi che hanno potuto fornirgli un supporto» (Laplanche e Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi, vol. 2, p. 522), visto che «nel mondo delle nevrosi la realtà psichica è quella determinante» (Freud, Introduzione alla psicoanalisi, in Opere, vol. 8, p. 524).
Il fattore costruttivo, implicito nella nozione di romanzo familiare, dev’essere portato in primo piano anche nei percorsi di soggettivazione intorno a cui si solidifica l’esperienza che ogni individuo fa di se stesso. La storia della specie umana è quella di una specie narrante, nel senso che sin dall’infanzia ogni individuo fa esperienza di racconti, fiabe e storie. Quella del bambino che ascolta una storia è la scena di un’appropriazione simbolica, in cui prendono forma alcuni dei punti di riferimento che orienteranno il soggetto nella costruzione di sé, nella comprensione del mondo e nel rapporto con gli altri.
Si tratta di un’esperienza culturale che sprigiona una potenzialità creativa a lunga gittata, alimenta la rivoluzione del Sé e corrisponde alla conquista di un ordine simbolico e culturale: la capacità di far proprio il racconto che si riceve dall’altro, di trasformarlo in uno strumento per dare senso al tempo.
Anche leggere una storia comporta un’attività complessa che coinvolge diverse dimensioni dell’esistenza, la realtà materiale e quella psichica, fra le quali la memoria gioca senza dubbio un ruolo cruciale. Del resto, il concetto di desiderio narrativo – la predisposizione dell’essere umano a dare forma e senso al proprio agire attraverso trame e sequenze ordinate – rinvia alla capacità umana di mettere in relazione i tempi delle azioni (passato, presente e futuro), di rappresentare le interazioni secondo schemi ricorrenti (cause, scopi, mezzi), di organizzare la molteplicità di eventi in modo coerente al fine di costruire per loro una trama significativa. Interessandosi ai rapporti fra narrazione e vita psichica, Peter Brooks sottolinea la centralità dei problemi legati alle dinamiche temporali in Reading for the plot (1984):
La narrativa è una delle grandi categorie o sistemi di comprensione cui ricorriamo nei nostri negoziati con il reale, e in particolare con i problemi della temporalità: i condizionamenti che l’uomo subisce da parte del tempo, la sua coscienza di esistere solo entro i limiti precisi fissati dalla morte. E le trame sono le principali forze ordinatrici di quei significati che cerchiamo, attraverso una vera e propria battaglia, di strappare al tempo.
L’importanza delle trame rappresenta un ponte essenziale tra l’elaborazione psicoanalitica sulla coesistenza di più tempi nella nostra esperienza del tempo e la loro produttività letteraria. È un ponte che attraversiamo ogni giorno: gli usi della narrativa forniscono agli individui non soltanto modelli di interazione, ma strumenti essenziali per scambiarsi esperienze e costruire legami attraverso racconti. Secondo Maria Chiara Levorato, psicologa dello sviluppo e autrice del libro Le emozioni della lettura (2000), esiste una continuità tra gli usi quotidiani e quelli letterari della narrativa: una sorta di predisposizione della mente umana a «percepire nella realtà svolgimenti narrativi», cioè a elaborare l’esperienza strutturandola per gli scambi con il mondo sociale.
Si può dire che la capacità di costruire orizzonti di senso affondi le sue radici nell’esperienza infantile di ascolto delle fiabe e che sia rafforzata, nel corso della vita, dal contatto con le storie narrate. Inoltre, si può riconoscere che da questo nucleo di esperienze decisive l'individuo attinga energie per un processo di soggettivazione: misurando le distanze dalle proprie paure, può affrontare i momenti di crisi e ricostruirsi in seguito a un evento negativo. La vulnerabilità può manifestarsi in molti modi, e in ogni fase della vita, attraverso situazioni che mettono in pericolo la rappresentazione di noi stessi e, per molti versi, il senso della nostra vita. Un lutto, un incidente, una malattia, una separazione, la perdita del lavoro e molti altri eventi possono provocare un restringimento degli orizzonti, rinchiudere il soggetto in uno spazio di solitudine dal quale è difficile uscire. A tal proposito, lo psicoanalista francese Didier Anzieu ha sottolineato la potenza riparatrice della lettura, non in termini di autoterapia, ma di elaborazione e ricostruzione rispetto al lutto, in Le Corps de l’oeuvre: essais psychanalytiques sur le travail créateur (1981):
Quando una persona perde qualcuno che ama, osservatene il comportamento rispetto alla lettura. Finché non riesce a leggere, non riesce a elaborare il lutto. Se apre un saggio, un romanzo, un poema – tutti ben diversi da un’esortazione laica o religiosa a sopportare la sua condizione – ecco che sfugge alla malinconia, che lascia lavorare il lutto. La lettura è, insieme all’amicizia, uno degli apporti più validi per l’elaborazione del lutto. Aiuta, più in generale, a elaborare il lutto dei limiti della nostra vita, dei limiti della condizione umana.
Il contatto con i mondi narrati aiuta il soggetto a simbolizzare il tempo. Nonostante le differenze che distinguono gli individui nei piani esistenziali e nei modi di vivere, ogni processo di soggettivazione ha bisogno di trame per dare forma e senso alla propria esperienza di sé e del mondo. «Io sono il racconto della mia storia», afferma un altro psicoanalista francese, André Green. Poi si corregge, di poco ma in modo decisivo: «Io sono il mio racconto della mia storia». Le narrazioni ci aiutano a essere noi stessi, ci spingono a dare una forma alla nostra storia. Facilitano la tessitura dei tempi delle nostre vite, ricordandoci che siamo interconnessi in un intreccio di storie singolari e collettive. Lasciarsi trasportare da un testo rappresenta, almeno in termini transitori, una via alla padronanza di sé e alla comprensione dell’altro. Al contrario di chi crede che la lettura rappresenti una forma di allontanamento dalla realtà e di abbandono passivo all'ozio, la psicoanalisi e lo studio delle pratiche narrative mostrano come essa sia un lavoro su di sé e una forma di interazione: le storie presuppongono non solo la presenza dell’altro, ma l’apertura all’altro. Hanno bisogno di un destinatario che le riconosca, di un orizzonte aperto all’altro, di pratiche che allentino l’isolamento soggettivo attraverso un lavoro creativo di tessitura del tempo e la negoziazione dei confini fra il proprio e l’estraneo.
*DANIELE GARRITANO
Ha discusso una tesi di dottorato sul segreto in Proust. Oggi si occupa perlopiù di letteratura e processi culturali. Vive al confine fra scienze umane e sociali, millantando una sorta di doppia cittadinanza. È fra i fondatori di Zetaesse. Per ogni articolo che scrive, cambia un po' la bio. Academia.edu
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