di DANIELE GARRITANO
Raccontare la cucina è diventato il passatempo degli italiani, spesso scherniti per essere capaci di cenare intrattenendo gli ospiti con dissertazioni sul cibo stesso. Abbiamo messo in scena, sullo sfondo di una tavola apparecchiata, un metalivello simbolico paragonabile a quello di alcuni film – penso a molti titoli di Moretti, ma anche a Effetto notte di Truffaut – che raccontano il mondo del cinema mettendo in scena la realizzazione del film stesso. Evocando scherzosamente un titolo-chiave del filosofo Maurice Blanchot, abbiamo fatto del cibo il nostro «infinito intrattenimento».
Scoprire il perché di un simile attaccamento ci condurrebbe ad analizzare il fenomeno del fooding: contrazione fra le parole ‘food’ e ‘feeling’, neologismo nato nel 1999 dalla penna del critico gastronomico Alexandre Cammas; un brand diffuso in tutte le province del mondo occidentale attraverso festival, eventi e guide gastronomiche. Ma, al tempo stesso, bisognerebbe tenere in considerazione anche i molteplici gradi di separazione fra la presunta (ri)scoperta di antiche tradizioni locali e l’innovazione dei moderni processi di preparazione applicati alla cucina, che diventa sempre più simile a un laboratorio di scienze sperimentali. In termini bruschi, forse brutali: c’è ancora spazio per i sentimenti nella capsula del Cyber Egg di Davide Scabin?
Cercherò di analizzare da un punto di vista testuale – letterario, se vogliamo – il tipo di reazione che food e feeling possono provocare sul piano dell’esperienza umana, generando un carburante essenziale per l’arte di raccontare e, al tempo stesso, un prodotto fra i più appetibili sulla scala del mercato internazionale, come dimostrano i venti milioni di visitatori confluiti nell’Expo milanese. Se il fooding ha dimostrato di essere un ottimo vettore di vendita, particolarmente adatto alle classi medie e un po’ bohemien delle metropoli (bo-bo, hipster, food-blogger e simili), molto poco si è parlato del legame più antico che sussiste fra la cultura alimentare e la sfera affettiva. Questo legame è fondato sul concetto di esperienza, che bisogna intendere nel suo senso etimologico di “attraversamento, traversata, passaggio”. Occorre familiarizzare un po’ di più con questa idea, poiché ci condurrà a scoprire il cuore del nesso che tiene insieme vita, cibo e letteratura.
Nel 1936, giusto ottant’anni fa, Walter Benjamin scriveva che «narrare è l’arte di scambiare esperienze», ammettendo al tempo stesso che «l’arte di narrare si avvia al tramonto». In questo fenomeno il filosofo tedesco ha saputo scorgere un tratto decisivo della nostra modernità: la svalutazione dell’esperienza, ovvero una sempre minore capacità di tramutare il vissuto in esperienza, che è la materia di ogni vero racconto. E se narrare significa «scambiare esperienze», possiamo intendere il mondo dei sapori in modo narrativo, come un medium, un passaggio di frontiera, fra il vissuto e l’esperienza? Ne siamo ancora capaci?
Di certo, la pratica quotidiana della cucina rappresenta uno dei principali modi di radicamento di una comunità al suo territorio. È fatta di azioni rituali, attraverso le quali l’essere umano, provvedendo al sostentamento alimentare per sé e per i suoi simili, non solo trasfonde se stesso nelle pietanze che realizza, ma afferma simultaneamente la propria esistenza in un luogo e in un tempo della storia. La cucina popolare, per esempio, racconta un’identità di classe che sopravvive in alcune pietanze definite ingiustamente povere, poiché conservano la ricchezza di chi sa fare molto con poco. Allo stesso modo, possiamo riconoscere in alcuni piatti regionali lo specchio di identità locali che resistono ai cicli di mercificazione esasperata imposti dall’industria alimentare. Si tratta di simboli identitari, vettori di appartenenza individuale e collettiva, paragonabili alla devozione di una comunità verso un particolare santo.
Troviamo un ulteriore esempio dello stesso radicamento negli spazi domestici, nelle tradizioni familiari, nella ritualità di alcuni piatti da preparare soltanto in certi periodi dell’anno o per poche occasioni, nella celebrazione di un “mondo di ieri” che si rigenera nella ripetizione di alcuni sapori capaci di introdurre una differenza nel tempo vissuto. Attraverso il cibo si elaborano i lutti, si celebrano unioni e nascite, si riempiono le vigilie attraverso la condivisione e la celebrazione di un legame sociale e, per molti versi, sacro. Il valore di questa pratica va ben al di là del semplice scopo nutrizionale: annoda i fili delle generazioni e contribuisce a tessere la trama multiforme della nostra esperienza del tempo.
Il neuro-psichiatra britannico Oliver Sacks, scomparso da circa un anno, autore di libri di successo come Risvegli e L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, ha dedicato il suo ultimo articolo al racconto di un piatto tipico della cucina yiddish: il gefilte fish. Attraversando una porta girevole nel labirinto della memoria, Sacks ripesca un ricordo d’infanzia in cui, alla vigilia del giorno di festa, il bambino osserva la madre intenta a preparare questa pietanza speciale.
I gesti descritti da Sacks non solo mostrano la preparazione di una ricetta kosher per il sabato, ma traducono anche la relazione alimentare fra madre e figlio in un linguaggio quotidiano – composto cioè da ingredienti che tutti conoscono, rispetto ai quali chiunque può trovare un proprio corrispettivo, il proprio gefilte fish. La familiarità evocata da questo racconto è inclusiva, poiché permette ad ogni suo lettore di compiere lo stesso viaggio nel tempo verso la propria Heimat (termine tedesco che richiama la casa d’infanzia e, insieme, il luogo natio).
Si può dire, senza giri di parole, che l’ingrediente segreto di questi piatti è il tempo, il motivo per cui alcuni sapori si caricano di un valore sacrale nelle vite degli esseri umani. È il tempo a fare la differenza, introducendo una qualità salvifica legata a un moto di resurrezione del passato. Alcuni prodotti della cucina possono offrire un riparo contro i traumi di un tempo vissuto all’insegna della vulnerabilità, della perdita e del lutto. Non a caso il romanzo più noto della letteratura occidentale, fra quelli dedicati alla questione del tempo e dei suoi miracoli, è ricordato soprattutto per la sua scena madre, legata al gesto quotidiano di una madeleine immersa in una tazza di tè.
Tanto spesso citato quanto raramente letto, il passaggio proustiano sul celebre dolce a forma di conchiglia si offre come un saggio sulle qualità miracolose della digestione. Grazie al corpo umido di questo frammento imbevuto di tempo, il protagonista del romanzo avverte per la prima volta un moto interiore che gli provoca piacere. L’esperienza della madeleine introduce un sentimento di onnipotenza del pensiero, di superiorità sul mondo esteriore, di gioia intensa e di liberazione dalla morte. Ma si tratta soltanto di un istante, una spia che si accende improvvisamente per spegnersi quasi allo stesso momento. Se si trattasse di un’esperienza durevole, il protagonista del romanzo avrebbe oltrepassato il limite del delirio di onnipotenza, come sotto l’effetto di una potente droga simile agli spinaci di Braccio di Ferro.
Ciò che è davvero importante nel passaggio proustiano, oltre all’asse madre-figlio che segna una costante nella dinamica universale del dono del cibo, è la descrizione di un trasalimento fisico che si trasforma gradualmente in un moto interrogativo sull’origine della sostanza speciale. Da dove veniva? Cosa significava? Dove afferrarla? L’origine, il senso e la riproducibilità di questa esperienza miracolosa sono gli enigmi fondativi della Ricerca del tempo perduto. Ma, come nei migliori enigmi, la risposta è già inscritta nella domanda. La sostanza sfuggente che il narratore chiama essenza preziosa è riconosciuta come qualcosa di non estraneo all’Io, ovvero come la parte dell’Io invisibile all’Io stesso.
Il piatto si carica di un plusvalore non quantificabile, incalcolabile come le distanze che separano la memoria dall’oblio; apre uno «spazio potenziale» – mi servo qui della definizione che ne ha dato lo psicoanalista inglese Donald Winnicott in Gioco e realtà: il punto di passaggio fra la realtà personale psichica e la realtà esterna condivisa – in cui si può (ri)creare un primo contatto (originale e originariamente mancato) con gli istanti decisivi che danno forma e solidità alla nostra percezione di ciò che siamo. Riuscire a trovare il proprio gefilte fish, la propria madeleine, è una fortuna che non viene negata a nessuno. Ma approfondire l’esperienza di questi incontri, interrogandola fino a farci cogliere il legame profondo fra la sfera alimentare e la rete di identificazioni che avvolge il nostro essere al mondo – fino a farci gustare la vita – è una prerogativa dei grandi scrittori, capaci di compiere «qualche progresso nello studio di un cuore umano».
*DANIELE GARRITANO
È uno dei fondatori di zetaesse. Filosofo di formazione, si è votato ben presto a un’erranza omerica fra varie discipline che compongono le cosiddette “scienze dell’uomo”. Dove lo lasci, non lo ritrovi. Ha vissuto a Cosenza, Napoli, Siena e Parigi. Traduce dal francese e dall’inglese all’italiano e recentemente ha scritto una monografia su Proust e la filosofia del Novecento.
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