di ALESSANDRO GIANNACE
«You’re looking through all these records and it’s sort of like a big pile of broken dreams, in the way almost none of these artists still have a career really, so you have to kind of respect that in a way, i mean if you’re making records and if you’re djing and putting out your own releases, whether it’s mixtapes or whatever, you’re so adding to this pile». Così Dj Shadow, nel documentario Scratch, spiega la sua ossessione per i vinili “dimenticati”. Piccoli e sconosciuti capolavori riportati alla luce grazie al “crate digging”, la pratica di scavare letteralmente tra le pile di dischi per trovare il sample giusto da campionare. Shadow, rovistando nello scantinato della Rare Records di Los Angeles, in mezzo a tonnellate di album abbandonati e destinati al macero, tirò fuori un masterpiece, Endtroducing… album suonato e registrato interamente con l’uso di giradischi e campionatore. Il percorso di questo secondo appuntamento nella terra dei campioni ricalcherà il viaggio di Shadow: alla scoperta di sample oscuri, grazie ai quali gli autori originali, seppure indirettamente, hanno ottenuto più del quarto d’ora di celebrità che tutti meritiamo e che il destino aveva negato loro. Questo secondo appuntamento partirà ricordando David Axelrod, instancabile ed estroso personaggio del panorama musicale statunitense appena scomparso, campionato da Shadow e da un’intera generazione di dj/produttori.
#6 DAVID AXELROD – The Human Abstract (Capitol, 1969)
«Largamente sottovalutata mentre egli era in vita, oggi la sua opera è considerata estremamente significativa e fonte di ispirazione». È l’incipit della pagina Wikipedia dedicata a William Blake, poeta britannico che visse a cavallo tra il 18° e il 19° secolo. A lui e alla sua poetica si ispirò David Axelrod, produttore, arrangiatore e musicista visionario che molto prima della corrente trip hop mescolò nelle sue composizioni il jazz, l’R&B e le suonate d’archi a tappeti incalzanti di percussioni. “Songs of Innocence” e “Songs of Experience” i suoi due primi album da solista, sono un tributo musicale all’opera maxima di Blake, “Songs of Innocence and Experience”. La connessione tra Blake e Axelrod è rafforzata dalle fortune discografiche di quest’ultimo: i suoi album da solista furono poco apprezzati, perlomeno a livello commerciale, all’epoca della loro uscita (sul finire degli anni ’60) , ma riscoperti e acclamati negli anni ’90 da un’intera generazione di produttori e dj, proprio per la capacità di creare quel sound cupo ed evocativo, del quale il trip hop, trent’anni dopo, avrebbe fatto la sua cifra stilistica. Uno stile che è figlio della vita da film di Axelrod: lui, bianco, nato a South Central Los Angeles, l’area più nera della metropoli degli angeli, durante gli anni ’30 e ’40, cresciuto spalla a spalla con i musicisti afroamericani con i quali andava ad ascoltare musica dal vivo. Poi il trasferimento a New York, l’ossessione per il bebop e il ritorno a Los Angeles, dove cominciò a lavorare come promotore nel mondo discografico. La sua carriera da produttore iniziò, come in tutte le grandi storie, quasi per caso. «In principio ero manager delle vendite, ma il produttore della casa discografica era così matto che un giorno fu licenziato. E quindi, d’emblée, mi ritrovai a produrre dischi» raccontava lo stesso Axelrod in un’intervista a Big Daddy Magazine del 1999. Veniamo dunque alla canzone di copertina. “The Human Abstract”, dal nome di una poesia di Blake, (traccia numero 6 di “Songs of Experience”), è un brano che evoca «la vista di un infinito cielo di colore pallido e della vasta e moritura città che vi giace sotto», diceva la rivista Mojo nel 2006. L’atmosfera di cupa tranquillità ispirata dalla linea di pianoforte, ben delineata e udibile nei secondi finali, è la struttura portante di Midnight in a Perfect World di Dj Shadow, personaggio che sta al campionamento come Ferran Adrià alla cucina molecolare. “Endtroducing…”, l’album del 1996 che contiene “Midnight in a Perfect World”, è entrato nel Guinness dei Primati per essere stato il primo disco composto e registrato interamente a partire da campionamenti di altri dischi. E anche qui tocca spendere almeno due parole sull’artista, che costruì il suo “manifesto” dopo anni di “crate digging” nello scantinato di Rare Records, un gigantesco negozio di dischi a Los Angeles, al quale aveva un accesso privilegiato vista la sua lunga militanza da cliente. «Tutto cominciò quando trovai il 45 giri di I Know You Got Soul di Bobby Byrd, proprio nel periodo in cui Erik B e Rakim la campionarono per il loro pezzo omonimo. Fu allora che pensai: se mio padre ha “Hot Buttered Soul” di Isaac Hayes nella sua collezione di dischi e i Public Enemy lo usano in Black Steel in the Hour of Chaos (campionando Hyperbolicsyllabicsesquedalymistic, ndr), allora io sono sulla stessa linea d’onda. Devo cominciare a produrre i miei beat», ha spiegato Shadow in un’intervista al Guardian di qualche anno fa. Fu praticamente lui a rilanciare la carriera di Axelrod, anche se nel 1993 un suo pezzo (You’ve Made Me So Very Happy firmato come produttore al servizio di Lou Rawls) fu utilizzato dai De la Soul in I Am I Be. Da metà degli anni ’90 in poi, tantissimi riscoprirono Axelrod. Inspectah Deck e Ghostface Killah dei Wu Tang Clan utilizzarono Terry’s Tune per Elevation e Stay True, Dj Premier campionò The Smile per il pezzo di Royce da 5’9” Shake This e nel 1999 Dr. Dre costruì la sua The Next Episode sulle sonorità western di The Edge, portata al successo dallo scozzese David McCallum, ma prodotta da Axelrod. Di sample in sample Axelrod, finito nel dimenticatoio durante gli anni’80, rientrò dalla porta principale nel mondo della musica: il cerchio si chiude con la Mo’Wax, l’etichetta per la quale suonavano molti degli artisti che lo avevano campionato, che gli fa registrare nel 2001 “David Axelrod”, il suo ultimo disco in studio da solista.
#7 JAMES BROWN – Funky Drummer (King, 1970)
«Fellas, one more time. I want to give the drummer some of this funky soul we got going here». Con queste parole, al minuto 4.40 della traccia, James Brown, seppure inconsciamente, consegnò alla storia l’assolo di batteria suonato da Clyde Stubblefield in “Funky Drummer”, del 1970. Di nuovo stiamo parlando di una canzone che non decollò nelle vendite: solo nel 1986 fu inserita in un album, mentre il singolo non andò oltre la posizione numero 51 della Billboard dell’epoca. Del resto “Funky Drummer” non è nemmeno la tipica canzone “catchy” di James Brown, alla “Get On Up” o alla “I Feel Good” per intenderci. “Funky Drummer” è quasi una lunga jam session: al minuto 5.35 arriva il momento di gloria di Stubblefield, allora 18enne, ma già virtuoso della batteria. Il grande successo del suo break lo ha fatto entrare nella storia: il magazine Rolling Stone lo ha inserito tra i sei migliori batteristi di sempre, e una coppia delle sue bacchette autografate è esposta nella Rolling Stone Hall of Fame. Anche “Funky Drummer” è uno dei pezzi che ritornano e rispuntano praticamente ovunque: i Public Enemy, ad esempio, ne sono stati quasi ossessionati e tra stacco di batteria e altri sample l’hanno campionata in ben sette tracce della loro produzione: Bring The Noise del 1987 (colonna sonora del film “Less Than Zero”) ne usa la batteria, anche Rebel Without a Pause fa suonare il break di Stubblefield, così come She Watch Channel Zero?! del 1988. Anche la canzone simbolo dei Public Enemy, Fight The Power e What What del 1989 e Hazy Shade of Criminal del 1992 usano il famoso break. Tornando indietro al 1987, Too Much Posse sceglie un frammento vocale posizionato un attimo prima dello stacco. La “lista della spesa” prosegue negli anni ’80 con Fuck Tha Police degli N.W.A. che prendono lo stacco di batteria, mentre Mos Def in Mathematics del 1999, utilizza il “One-Two-Three-Four” con il quale Brown lancia il break . Gli A Tribe Called Quest in Separate/Together scelgono invece uno degli urletti di Brown mettendolo a tempo con la base. Fuori dal giro dell’hip hop, lo stacco suonato da Stubblefield, velocizzato e messo in loop, è stato ripreso da Caustic Window/Aphex Twin in Pop Corn e da Nicki Minaj per la intro di Save Me.
#8 THE CHARMELS – As Long as I've Got You (Volt, 1967)
Immergiamoci ancora di più nelle profondità dei vinili dimenticati con un brano di una band che non ha nemmeno una voce su Wikipedia: “The Charmels”, quattro ragazze afroamericane che tra il 1966 e il 1968 registrarono quattro singoli soul per la Volt, casa discografica di Memphis. Nessuno di questi riuscì a entrare nelle hit dell’epoca, ma uno in particolare, però, finì tra le mani di RZA, il produttore e membro del gruppo che ha plasmato il suono introspettivo dei Wu Tang Clan. Sul melanconico attacco di piano di “As Long As I’ve Got You” (prodotto in collaborazione da Isaac Hayes e David Porter) RZA ha costruito C.R.E.A.M., forse la canzone più conosciuta della crew di Staten Island, quella in cui si afferma che tutto ruota intorno al denaro (“Cash Rules Everything Around Me”). Il parallelismo tra le due canzoni è singolare: entrambe hanno avuto bisogno di tempo per “maturare” e uscire alla ribalta. La prima ci è arrivata grazie all’opera di scavo di RZA, la seconda ha impiegato 15 anni prima di essere riconosciuta ufficialmente come una hit, perlomeno dal circuito mainstream: solo nel 2009, a 15 anni dalla sua uscita, superò le 500mila copie vendute, ottenendo il disco d’oro. Tra gli altri che hanno usato il giro di piano di “As Long As I’ve Got You”, anche i Westside Connection, che assieme alla star del basket Shaquille O’Neal - rapper per l’occasione - l’hanno ripresa in Bow Down (nella versione remix). Anche Gramatik ha fatto sua “As Long As I’ve Got You”, in Street Soul 101. Più volte il produttore sloveno ha attinto agli stessi sample utilizzati da RZA: in Dungeon Sound, ad esempio, ha ripreso After Laughter (Comes Tears) di Wendy Rene - che i Wu Tang Clan hanno utilizzato in Tearz - un altro gioiello del Southern R&B rimasto fuori dalle classifiche dell’epoca, diventato una hit dopo circa trent’anni: 1964 è il suo anno di uscita, 1994 quello di “Tearz”.
#9 SONNY STITT – Private Number (Solid State, 1969)
Prendete la cover di una hit soul di fine anni ’60, suonata da un sassofonista leggendario, aggiungeteci l’intro di un’altra hit, questa volta R&B e dell’inizio dei “sixties”, poi il sample più utilizzato dai virtuosi dello scratch, selezionato da un disco rap degli anni ’80. Il risultato sarà sorprendente: un’amalgama perfetta di suoni e textures vocali che provengono da epoche diverse, ma che sembrano pensate per suonare insieme. In fondo, lo spirito e lo scopo dell’arte del sampling è proprio questo e Pretty Lights - un artista che Rick Rubin ha definito «the face and voice of the new American electronic music scene» - ci riesce alla perfezione in Finally Moving, che appare nel suo album di debutto Taking Up your Precious Things, del 2006. Il tema conduttore è per l’appunto Private Number, ma non nella versione originale di William Bell e Judie Clay, bensì nella cover di Sonny Stitt, il “lupo solitario” del sassofono, a cui spesso fu rinfacciato di suonare troppo come Charlie Parker. Sul riff introduttivo di Stitt, Pretty Lights incastra tutto il pezzo, dando voce a Etta James, della quale ha campionato l’intro vocale di Something Got a Hold on Me, il terzo singolo estratto dall’omonimo album della cantante statunitense, che fa più o meno così:
“Oh oh, sometimes I get a good feeling, yeah
I get a feeling that I never, never, never, never had before, no no (Yeah)
And I just gotta tell you right now that I
I believe, I really do believe that”
E poi, dopo un minuto, mentre voce e sassofono procedono insieme, arriva il terzo elemento: lo scratch. Pretty Lights non utilizza un campione a caso per andare in assolo con il giradischi. Ma sceglie quello che in gergo viene chiamato l’aah, un po’ per assonanza sonora, ma anche perché è il primo campione che conosce chiunque inizi l’arte del turntablism, la prima lettera dell’alfabeto dello scratch. Stampato e duplicato su milioni di “battle breaks” (i vinili speciali che i dj utilizzano per le loro sfide sonore) questo campione proviene dal lato B di Change the Beat, di Fab Five Freddy. Nella “female version” (così si chiama il brano sulla seconda facciata del disco) c’è il featuring di Beside: la rapper francese canta nel suo idioma dando vita così a uno dei primi pezzi rap multilingua della storia. E poi, all’improvviso, a fine canzone ecco che parte il sample: “Aah, this stuff is really fresh”, recita una voce robotica, ottenuta con il vocoder.
Variazioni sul tema: il riff di Private Number è stato ripreso dai Nightmares on Wax per You Wish, ma ha avuto un discreto successo anche nella scena rap italiana, suonato da Gionni Grano in Contagiami e in Tutto Di Te di DJ Kamo assieme ad Albe Ok.
#10 THE WINSTONS – Amen Brother (Metromedia, 1969)
I sei secondi che hanno dato i natali a quasi 2.500 canzoni. Quattro battute di batteria sul lato B di un 7” registrato solo per riempire lo spazio vuoto. “Amen, Brother” dei The Winstons, minuto 1.27: tutti gli altri strumenti si fermano per lasciare spazio all’assolo di Gregory Sylvester Coleman, il batterista della band. Uno stacco perfetto per essere campionato: l’andatura sincopata lo fa girare in loop senza suonare ossessivo, il suono largo e aperto e del cymbal (che viene utilizzato al posto dell’hi-hat per marcare il tempo in 4/4) lo rende evocativo, rarefatto, quasi avulso dal resto del pezzo, come se fosse un altro brano. Proprio per questi motivi è il sample più utilizzato nella storia della musica: l’Hip Hop ne ha attinto a piene mani, la Jungle (e poi la Drum’n’Bass) non esisterebbero senza queste quattro battute. Eppure questa pietra miliare del sampling nasce quasi per caso. Racconta Richard Spencer, il leader dei The Winstons, che erano in studio per registrare “Color Him Father”, singolo con cui ebbero poi un discreto successo, vincendo anche un Grammy nel 1970. Avevano bisogno di registrare un “b-side”, un pezzo che spesso serviva solo a non lasciare vuoto il secondo lato del 7” in vinile. La band, dopo ore di registrazione, era stanca e non aveva voglia di fare molte prove: il brano - una ricontestualizzazione funky-R&B di Amen, gospel di Jester Hairston usato come colonna sonora di “Indovina chi viene a cena” - fu inciso in appena 20 minuti, spiega Spencer, anche grazie all’utilizzo di alcuni riff di chitarra registrati da Curtis Mayfield. Ma, per l’appunto, si trattava di scampoli, che da soli non bastavano per garantire una durata sufficiente. E fu anche per questo che si decise di lasciare a Coleman i sei secondi che cambiarono la storia della musica, altrimenti conosciuti come l’Amen Break”. Fu utilizzato nell’Hip Hop a partire dagli anni ’80 con gli N.W.A. in Straight Outta Compton (1988), dalle Salt’n’Pepa in versione rallentata per I Desire (1986), passando per Eric B & Rakim (Casualties of War del 1992) e arrivando fino a Compton di The Game, nel 2006. Nella Jungle fu campionato in Original Nuttah di Shy Fx e Uk Apache che praticamente utilizzano solo lo stacco di batteria “in purezza” (senza elementi aggiuntivi) come base per il cantato dell’MC. E ancora in ambito elettronico nel lungo elenco compaiono Amon Tobin (Nightlife), Squarepusher (Come on My Selector) e gli Apollo 440 (Ain't Talkin'Bout Dub). All’Amen Break si sono inchinati persino “il Duca” David Bowie in Little Wonder, e gli Slipknot (Eyeless), è contenuto anche nella sigla di Futurama e ancora oggi viene utilizzato in tutte le variazioni della musica elettronica, senza distinzioni di genere. Sei secondi che durano più di quarant’anni, in altre parole. Vista la portata del fenomeno, era inevitabile che trascendesse dal semplice ambito musicale: lo scrittore Nate Harrison - scrittore/artista che studia le intersezioni tra proprietà intellettuale, produzione culturale e processo creativo - ha dedicato un’installazione audio da 20 minuti all’Amen Break, Colin Hendee, un artigiano texano, ha realizzato un pezzo d’arredamento in legno, ispirato alla forma d’onda dei sei secondi in questione. Il colmo, però, è che i Winstons non hanno mai incassato un dollaro di royalties da nessuno: il batterista Greg Coleman è morto in povertà ad Atlanta, dopo una lunga dipendenza dalla droga, il leader Richard Spencer ha scoperto solo nel 1996 il successo “sotterraneo” della sua canzone, quando un’etichetta discografica inglese lo contattò per rilevare i master dell’incisione. Giustizia è però stata fatta più in là: nel 2015 Spencer ha ricevuto un assegno da 24mila dollari, tirati su grazie a una campagna di crowdfuning realizzata dal Dj Martyn Webster.
Come nella prima puntata, dopo parole e musica vi lascio una playlist di Spotify che segue l’ordine di apparizione dei brani. Prima il brano campionato e poi le sue derivazioni.
*ALESSANDRO GIANNACE
Giornalista, scrive di sport e scommesse. Spesso in cucina, a volte dietro i giradischi. Non ama le note biografiche, ma per noi ha fatto un'eccezione...
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