di DEBORAH BIANCO
Unaquaeque res, quantum in se est, in suo esse perseverare conatur
(Ogni cosa, per quanto è in sé, si sforza di perseverare nel suo essere)
Nel tentativo – mancato, assente – di rendere visibile il manifesto, di chiarificare le forme o-scure della coscienza, si rende necessaria – nonché superflua – l’occorrenza tautologica di dare corpo a un corpo. «Io devo avere un corpo» scrive Deleuze, parafrasando Leibniz, ne La piega, «io devo avere un corpo perché vi è qualcosa di oscuro in me», adducendo «una necessità morale, un’esigenza» per l’anima di avere un corpo. L’anima, attraverso le inquietudini diventa appetente e, passando da una percezione all’altra si fa corpo. È il corpo che soddisfa le appetizioni dell’anima.
Ma il corpo diventa carne nell’appagamento materiale del desiderio.
Desideriamo dell’acqua o il corpo dell’Altro per rispondere a istinti basilari dell’organismo, e cosa, se non il corpo grottesco risponde esattamente alle istanze fisiologiche del bisogno di cibo, di sesso e di eliminare le scorie?
Bocche aperte, protese al morso, all’agguanto, protuberanze e orifizi esposti, ventri rilassati e spalancati, nasi che sono il prolungamento ideale di falli: è la rappresentazione compiuta del corpo grottesco. È un «corpo in divenire» per Bachtin, raffigurato magistralmente nei romanzi di Rabelais. Il corpo entra in relazione con il mondo nell’atto di bere e mangiare, attraverso immagini gravide, iperboliche ne assapora il gusto, diventando parte di esso.
INTRODURRE (DEL)L'ALTRO IN SÉ/EUCARESTIA
Il rapporto corpo/mondo non ha un inizio e una fine, perché sta nel mezzo, au milieu, non c’è principio, né termine, ma è (esiste, c’è), sta nell’hic et nunc, sta avvenendo, è in divenire, accade o non è mai accaduto. Il rito ciclico e meccanico del nutrimento si compie da sempre, l’uomo spalanca le sue fauci e inghiotte nel corpo/cavità un corpo/oggetto, il corpo che mangia un altro corpo, un corpo-carne, e il corpo che diviene nutrimento. Si introduce un altro corpo in sé per acquisirne le proprietà nutritive, si cerca nell’amplesso l’Altro per costituire l’Uno.
Le popolazioni primitive si cibano dell’animale sacro o dell’uomo che personifica la divinità per assimilarne le peculiarità, non solo fisiche, ma soprattutto sacre e “magiche”. I cristiani, attraverso il rito misterico della transustanziazione, continuano a nutrirsi del corpo e del sangue di Cristo. Ed ecco che il sacrificio dell’Agnello di Dio purifica i loro peccati e li libera dal male eterno. Deicidio, antropofagia sacra e teofagia sono i meccanismi apotropaici che l’uomo usa per scongiurare ed esorcizzare il male, il maligno e le forze malefiche in generale. Da secoli il corpo del cristiano, fedele alla ripetizione, si ritrova al banchetto eucaristico, col capo chino e l’animo pentito (ma comunque recidivo nel vizio), in fila per ricevere un pezzettino di divinità. Secondo Foucault, Atteone, non è il cervo straziato dai suoi cani, ma diviene il capro impuro profanatore. I cani si cibano del suo corpo e Atteone diviene parte di essi. Atteone subisce il corpo – è oggetto del corpo grottesco, non soggetto – è afasico, patetico, lui è l’estremo sacrificio.
MASTICAMENTO/COMUNIONE
Marco Ferreri, il regista stanco dei sentimenti, porta in scena opere fisiologiche per sua stessa ammissione. Le sue opere sono l’apoteosi del fisiologico, del superamento del limite, del travolgimento della convenzione e dell’attraversamento della consuetudine. L’atto del masticare – l’azione meccanica di triturare, il tic continuo della mandibola e l’azione frantumatrice dei denti – è il leitmotiv de I masticanti, titolo primigenio della pellicola capolavoro del ‘73 che diverrà La grande bouffe (La grande abbuffata). L’intero film è un manuale visivo anatomico e fisiologico – degradato e degradante – della masticazione.
La Ferréol è l’immagine-corpo del masticamento filmico, la Caronte accompagnatrice dei quattro masticanti, sorpresa nell’atto di sbrindellare un pezzo di carne – oggetto/feticcio nel pre-incontro erotico con Marcello – nell’inghiottimento continuo di una portata qualunque. Andréa si morde le labbra, afferra il cibo avidamente, con ingordigia. L’atteggiamento grottesco è congenito, innato nella maestrina, quasi atavico, il suo ventre disteso e rilassato è rifugio di cibo e di sesso.
Ma è il personaggio di Michel Piccoli che incarna per eccellenza il corpo grottesco, ne diviene emblema con la sua morte per implosione/esplosione nei suoi stessi escrementi, rimanendo corpo esanime, sospeso al parapetto. Ogni fotogramma è colmo, pieno, eccede di cibo, di movenze, di erotismo. La grande bouffe è il carnevale che diventa quotidiano, non più semel in anno.
Al di là del banchetto, del carnevale e del momento orgiastico, è il carattere ripetitivo che colpisce lo spettatore – il quale si trova a essere “abbuffato” dal continuo proliferare di immagini, come i protagonisti dalle pietanze, in una continua pressione iconofagica – la freudiana coazione a ripetere, un automatismo che trova soddisfacimento nella ripetizione della nevrosi, del sintomo. La Wiederholungszwang – coazione a ripetere – nega il principio di piacere e si colloca all’interno della pulsione di morte. Il ripetersi di per sé provoca un momentaneo e illusorio appagamento che condurrà dritto alla morte.
Ferreri osserva il comportamento umano al microscopio – complici i mai amati studi di veterinaria – ma la sua lente è quella del grottesco. Il regista celebra la sua prima comunione filmica nel ’91 con La carne, film-sacramento del paradosso e del grottesco, nel quale l’orizzonte del reale si deforma e progressivamente si frantuma. L’autore confessa l’intenzione di voler fare un cinema del cattivo gusto e, attraverso la conturbante Francesca Dellera – dalla pelle diafana e dalle forme burrose – nella pellicola si rimanda al riconoscimento del divino. Un divino che ha come unico carattere la bellezza delle forme e il piacere di goderne. È l’uomo/adoratore – Sergio Castellitto – che, tra continui smarrimenti, riconosce nelle fattezze morbide della Dellera il sacro e se ne nutre attraverso il coito. È un ininterrotto cibarsi del divino, senza mai saziarsi, in cui il maschio si sente onnipotente, grazie alla donna-dio, capace di procurare un’erezione continua. E, quando il mammone Castellitto sente di perderla, entra in comunione cannibalistica con lei, trasformando il corpo di Francesca nel corpo di Cristo. L’esperienza erotica e quella mistica – necessitanti entrambe dell’eccesso – si legano e portano alla morte del soggetto/oggetto, che è anche l’Altro, donna-dio e donna-amata. Il corpo grottesco dell’uno fagocita la carne divina dell’Altro/a: «ma non un pezzetto di Dio, mamma, io volevo mangiare Dio tutto intero», dice Castellitto alla fine della pellicola dialogando con la foto della defunta madre.
*DEBORAH BIANCO
Laureata in Filologia Moderna all’Università della Calabria. Si occupa di letteratura italiana contemporanea, di critica letteraria e di cinema. Ha in preparazione un articolo sulla poesia di Bassani. Su di sé ha sempre molto poco da dire.
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