a cura di ANDREA AMOROSO e DANIELE GARRITANO
Il riso che vien fuori dai vostri spettacoli non è un riso comico e non è un riso tragico. È un riso che viene da un altrove affascinante e in qualche modo misterioso. Siete d’accordo? Per dirlo meglio: ridi, ti sbellichi, ma c’è qualcosa che ti resta sottopelle, una sottotraccia che stride continua a stridere.
MASTRELLA – Diciamo che sono dei veri e propri drammi quelli che si raccontano, anche la struttura narrativa è drammatica. È Antonio che traduce il dramma in stupore e allegria sfrenata per il momento, perché poi quando gli spettatori vanno a casa riviene fuori il dramma.
REZZA – Non è fatto apposta, sarebbe spregevole se uno riuscisse a fare apposta qualcosa del genere. Noi sicuramente non stiamo male nel rappresentare quello che facciamo, non è che ci crea dei problemi quando andiamo a casa; anche se hai messo in scena qualcosa che poi causerà la contraddizione in chi vede, tu non è che provi quella sofferenza, no? Sarebbe la fine se io mi intenerissi, il guerriero non ha tenerezza nel cuore, o se ce l’ha comunque non nella fase della rappresentazione, della lotta.
«Ci si piega troppo spesso con l’assurdo dietro e si fanno i conti con i traumi passati. Così l’essere inferiore cerca conforto nell’impegno civile. E con la morte altrui ritorna l’amor proprio. […] Ma con la mamma biologica la partita è persa: pelle della sua pelle ma fine della tua» (A. Rezza). Vorremmo partire da questo e dalla nozione lacaniana di linguaggio come luogo della negatività. Senza entrare troppo nel tecnico possiamo dire che il linguaggio è trauma in quanto esso è bucato, forato, in quanto fa acqua da tutte le parti pur avendo il compito di tenere assieme, di farsi portatore di senso fra i sensi. Che ne pensate?
REZZA – Per citare una cosa che abbiamo scritto direi che la parola è l’ultima spiaggia e infatti, non a caso, quando uno non sa cosa dire dice una parola, e quindi è qualcosa che va presa con molta diffidenza. Sarebbe bello fare quello che facciamo senza le parole, solo con i suoni. Cioè… la parola è un suono, però è legata a un significato. È chiaro che il suo suono non dà immediatezza perché poi i significati creano dei percorsi, di intendimento o di fraintendimento, mentre uno vede ciò che l’altro fa (ciò che noi facciamo sul palco)… e quindi c’è un godimento troppo estremo nel vedere (da parte nostra) chi vede (lo spettatore, ovviamente) agganciarsi come può a una serie stratificata di significati. Io ci rinuncerei volentieri ma non è possibile.
Nei vostri spettacoli c’è un’esplorazione che è un inno alla vacuità del pensiero. La vostra esplorazione è gestuale, testuale e visiva assieme. Il pensiero in tutto questo è sfrattato, messo in croce, deterritorializzato, rimasticato fino a farne una poltiglia informe. Pensate di poter andare oltre, un passo più in là, fino a fare ancora di più lo sgambetto al senso e al contenuto?
MASTRELLA – Sì, io penso di sì. Il prossimo stadio potrebbe essere quello di un urlo gigantesco e basta, non è detto che ci sia la parola, non è detto che ci sia il linguaggio delle immagini. E, soprattutto, vorrei dire che noi intendiamo il nostro lavoro con un linguaggio unico: la parola amplifica lo spazio e lo spazio amplifica la parola, perciò non so fino a che punto è valido parlare separatamente solo di questioni che riguardano parola o solo di problemi che riguardano gli spazi perché sono talmente uniti da essere indivisibili.
REZZA – Per quanto mi riguarda non ci possiamo porre il problema, non possiamo sapere adesso dove arriveremo. Certo, sarebbe bello – come diceva Flavia – fare uno spettacolo che fosse solo un urlo, dato che noi nasciamo con la vocale in bocca e moriamo con la vocale in bocca. Poi in mezzo ci mettiamo una serie di stronzate per farci capire, ma chi muore muore con un grido e chi nasce nasce con un lamento. Non capisco perché poi le consonanti debbano affannarsi a creare condivisione. In fondo due momenti così importanti sono regolati da due suoni, non da due discorsi. In mezzo un sacco di parole che probabilmente servono soltanto a essere accettati socialmente.
Nel vostro libro Clamori al vento c’è questo paragrafetto intitolato La condizione dello spettatore: «Deve soffrire nello spazio bifronte. Nello spazio bifronte ed essenziale non c’è intimità per lo spettatore che, tra ritmi urbani e tribali, esce al trotto dei caprioli del tempo per approdare al vigore e alla saturazione della carne». Cos’è capace di fare un corpo – il corpo di Antonio, soprattutto – a teatro? Qual è il suo limite e quale la sua potenza?
REZZA – Il limite è dato dallo sforzo, quindi lo percepisci solo quando sei stanco. Il limite è dato dal numero di repliche, quando sto a posto e non sono stanco non ho limite. La sua potenza è comunicativa, viene dalla comunicazione che dai muovendoti in un certo modo. Nei teatri di soli abbonati vengono dopo a toccarci perché il loro corpo se ne sta andando, vedono corpi che si muovono e rimangono affascinati da un movimento che loro non hanno più. Spesso non ci mandano nei teatri di abbonati perché pensano che gli abbonati si incazzino e invece no, gli abbonati sono attratti da quello che loro non hanno.
Ostilità alla nascita, l’esser mai nati, lo spreco, l’individualismo, la genialità, il concetto di impresenza, il rifiuto del teatro di narrazione, l’ostinato ribadire di non essere attori. Un sacco di cose in comune con Carmelo Bene. Ci rendiamo conto che chiedere qualcosa su Carmelo Bene a chi ha a che fare col palcoscenico teatrale è come chiedere a un prete se crede in Dio. Credi in Carmelo Bene?
REZZA – Io non credo che Carmelo Bene sia Dio e che noi siamo i preti. Ce lo dirà il tempo chi è più forte tra noi e Carmelo Bene, non ci sentiamo secondi a nessuno, né del passato né del presente. Se mi chiedi se pensi che Bene è stato più forte di noi ti rispondo di no, con assoluta obiettività. Poi noi siamo in due e quindi sviluppiamo un’energia addirittura maggiore. È certo che Carmelo Bene sia stato uno dei più grandi che siano mai esistiti, però Artaud mi sembra più puro, no? Nella sua immensa grandezza, Carmelo Bene ha rappresentato spesso testi classici, stravolgendoli in modo sublime e dandoci delle indicazioni su come si devono mettere in scena. Noi non ci appoggiamo a niente, si regge tutto da sé, non abbiamo una traccia che ci aiuti, partiamo completamente sprotetti all’inizio del nostro pensiero.
MASTRELLA – E poi la funzione del corpo è completamente diversa adesso. Il corpo è la vera divinità adesso, per cui è difficile rapportarsi a CB, che aveva intenzioni completamente differenti rispetto alle nostre. Noi lavoriamo sul corpo eroico.
Facciamo un’incursione nel vostro cinema. Avete scritto: «Dal 2001 in Italia si producono quasi esclusivamente documentari, le vicende epiche che noi trattiamo regolarmente sono ignorate». Milano, via Padova – che sarà proiettato stasera – è un documentario. Che documentario è? Avete rinunciato alle vicende epiche?
MASTRELLA – È un documentario epico, è un inferno, una realtà infernale.
REZZA – Noi li abbiamo sempre fatti gli esperimenti e le inchieste di questo tipo, a partire da Troppolitani. Ogni tanto interrompiamo la preparazione degli spettacoli, le prove, e facciamo queste inchieste per noi, perché ci danno la deriva per cambiare anche quello che stiamo facendo. Perché vivi in mezzo alla strada, in mezzo alla gente.
Rifareste Troppolitani?
REZZA & MASTRELLA – Lo facciamo continuamente, ce li autoproduciamo i nostri Troppolitani. Lo abbiamo fatto al Teatro Valle occupato, è terreno fertile anche quello. Abbiamo chiesto agli attori occupanti come si può occupare un luogo fisico quando già si occupa abusivamente lo stato d’animo di un personaggio. Questa era la nostra traccia, l’idea di mettere in contraddizione la funzione stessa dell’attore e di dimostrare come l’arte sia lontana dalle persone, dall’uomo della strada soprattutto. Abbiamo chiesto all’attore perché per mantenere il suo status economico è costretto a interpretare le vite dei poveracci, del disoccupato, del sieropositivo… Non spetterebbe metà del compenso al disoccupato o al portatore/autore della malattia? Questa è stata la nostra esperienza rispetto al Valle occupato, mettere gli attori di fronte alle loro contraddizioni. Come fa un attore a occupare uno spazio mentre sta girando una fiction? Questa è schizofrenia! E loro erano sconvolti da queste riflessioni che non avevano mai fatto.
«Attore-personaggio che ha echi del Marty Feldman di Frankenstein Junior e la vitalità sgangheratamente ginnica di Roberto Benigni, gioca su proposte impertinenti, provocatorie, spiazzanti, tra crudeli esibizioni di sé, ritmo senza risparmio, smorfie e comicità all’antica» (Corriere della Sera).
REZZA – Ma Benigni è un giullare, Benigni è un uomo di regime…
Ti arrabbi quando leggi recensioni di questo tipo?
MASTRELLA – Io sì, certo che mi arrabbio, per forza.
REZZA – Ma sì, anch’io, però poi che devi fare? C’è la libertà di scrittura e di opinione. Benigni è colpevole di aver dilapidato il suo talento in cambio del denaro, perché all’inizio faceva cose belle. Quello è un reato, dovrebbe costituirsi. Il resto della recensione può anche essere condivisibile.
Tu, Flavia, quali artisti ritieni imprescindibili?
MASTRELLA – Io devo dire che guardo di tutto e studio molto. Ultimamente il gruppo Fluxus perché credo che non sia ancora risolta la questione con loro e perché trovo il loro lavoro ancora oggi molto contemporaneo e per niente datato. O meglio, trovo il loro pensiero e la loro teoria ancora perfettamente funzionante mentre sì, qualche opera può essere un po’ datata. Il loro pensiero però deve ancora darci molto, ancora non si è svolto completamente, non si è esaurita la sua portata.
Antonio, tu a quali registi cinematografici ritorni con più ossessività?
REZZA – Sicuramente a Fassbinder, anche per la mole della sua produzione, che è sterminata in trentasette anni. Qualche cosa che non va lì c’è. Fra film veri e propri e film tv ha girato qualcosa come quaranta film, smontava un set e montava il successivo, davvero qualcosa che ha dell’ossessivo. E poi Kubrick e Pasolini… ma sono tanti, però sono tutti morti. Tra i vivi non lo so, dovrei sforzarmi. Mi piaceva il primo Cronenberg, fra gli italiani non saprei, dovrei sforzarmi. Ecco, Ciprì e Maresco per quello che hanno fatto e che non fanno più, manca molto quel genere d’irriverenza.
In Anelante, Ivan Bellavista a un certo punto recita un passo di Artaud, ci è sembrato che fosse Al paese dei Tarahumara. E invece non abbiamo proprio riconosciuto il passo che recita Chiara Perrini, che cos’è?
MASTRELLA – Sì, Ivan recita Artaud, mentre quello di Chiara è un articolo di Famiglia Cristiana del 1965. Manolo invece recita un brano di un libro sul disagio del viaggiatore dei treni. È divertentissimo, fa morire dal ridere, oddio… non mi viene il titolo, comunque è un manuale del viaggiatore esperto e parla di tutti gli accorgimenti da prendere durante il trasporto su treno. Manolo, nello specifico, parla del dilettante che prende il treno. Enzo invece parla dell’Abruzzo, della sua città.
Parafrasando da Clamori al vento, quando ti togli il costume di scena resta un po’ di performer attaccato al tuo corpo?
REZZA – Ma guarda, se per performance intendiamo stare metà della giornata al telefono, organizzare, rispondere a quello che ti chiedono le persone, occuparsi di tante cose che non riguardano direttamente quello che poi andrai a fare sul palco, ma che sono tutti aspetti collaterali, allora ti rispondo di sì. E questo aspetto non è del tutto negativo, anzi, ha il merito di portarti alla performance più incattivito, di farti arrivare a ciò che devi fare con un impeto diverso. Tutto viene così condizionato dal tempo che non hai dedicato a quello che ti sta più a cuore. E qui sto parlando di quando sono sul palco a provare, poi la performance pura, quella che avviene davanti agli spettatori è un congegno, una macchina, lì metti in moto e parti, non può fallire: è un congegno inadatto a fallire, appunto perché è qualcosa di automatico. Per questo spettacolo, nel quale siamo in cinque, abbiamo fatto ripetute continue dello stesso movimento; non perché siano complicati i movimenti in generale, ma perché è complicato come la parola debba legarsi a certi movimenti. Ci sono spettacoli nei quali i movimenti sono molto più coreografici e complessi rispetto a questo, ma qui il problema è di unire la parola a un dato movimento. Ti faccio un esempio nel quale sono da solo, quando leggo un pezzo del libro: se sbaglio a dosare l’energia iniziale, quando parlo mentre cerco di leggere, poi ne risento per due terzi del discorso. Il difficile è proprio questo, mandare la giusta quantità di energia proprio là dove deve andare e in quel preciso istante, non prima e non dopo. È come per un pilota: devi riuscire a prendere la curva alla giusta velocità, né troppo lento né troppo veloce, è quella la difficoltà, devi sempre stare attento. Non è che mentre sono in scena posso pensare a quello che dico, sarebbe folle pensare di riuscire a fare una cosa del genere, è assolutamente impossibile. È tutto automatizzato però bisogna stare attenti.
Ci è rimasto impresso nella memoria il vostro corto Hai mangiato? (1997), che si chiude con la morte del protagonista e con la battuta dei superstiti: «È sangue? No, è sugo».
La nostra rivista riprende in qualche modo questo gioco sull’idea del nutrirsi oltre la soglia del bisogno, dell’ingerire cibo fino all’autodistruzione, da cui il nostro sottotitolo (digestioni critiche) e il nostro simbolo (l’Anatra Digeritrice). A vent’anni di distanza da questo corto, cosa pensate del rapporto fra la cultura di massa e i nuovi processi di consumo sempre più ossessivi e pervasivi? È possibile rintracciare nell’indigestione continua di immagini e prodotti culturali la cifra del nostro tempo?
MASTRELLA – Di immagini che non diventano mai immaginario, però. Le immagini sono tante ma non riescono più a parlare. In pochi sono in grado di usare un’immagine per nutrire, in tanti sanno usarle per indurre, per condizionare. In questo vedo molta assuefazione, c’è un sistema estetico proprio borghese in azione oggi e dentro questo sistema estetico non si produce niente di nuovo. È un consumo compulsivo che non serve a niente, serve per la soddisfazione di un momento, non produce un vero nutrimento.Rezza: Io ho un bimbo di quasi otto anni e ho la pista elettrica, la Polistil, da quando ne avevo dieci, per cui col tempo è diventata gigantesca, avrò quaranta macchinette. Io ero contentissimo nel montargliela perché credevo ci giocasse, che fosse contento di avere un rapporto fisico con la macchinetta. C’è tutto quello che pensavo potesse coinvolgere un bambino, rumori, suoni, fisicità, tanto che ci gioco da solo, non m’importa che lui non ci giochi e mi metto lì cinque ore a fare delle grandi giocate. Perché lui invece è attratto dallo sfioramento del tablet, dalle immagini, dalla virtualità; e io, in tutto questo, non riesco a capire come si possa rinunciare alla componente tattile che a quell’età credo sia fondamentale. Per questo non gli resta impressa nessuna immagine, mentre io ho il ricordo delle mie prime macchinette.
*ANDREA AMOROSO
Si occupa di letteratura italiana del Novecento, ma non solo. È uno dei sei fondatori di zetaesse. È una persona qualunque.
*DANIELE GARRITANO
È uno dei fondatori di zetaesse. Filosofo di formazione, si è votato ben presto a un’erranza omerica fra varie discipline che compongono le cosiddette “scienze dell’uomo”. Dove lo lasci, non lo ritrovi. Ha vissuto a Cosenza, Napoli, Siena e Parigi. Traduce dal francese e dall’inglese all’italiano e recentemente ha scritto una monografia su Proust e la filosofia del Novecento.
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