a cura di DIEGO FERRANTE
Drammaturgo e sceneggiatore, Massimo Sgorbani si è diplomato in drammaturgia alla Scuola Civica Paolo Grassi. In teatro ha collaborato con attori come Franco Branciaroli, Antonino Iuorio, Ivana Monti, Sabrina Colle, Patrizia De Clara, Lucia Ragni, Ruggero Cara, Federica Fracassi. Nel 2001 ha vinto il Premio Speciale della Giuria Riccione 2001 “Bignami-Quondamatteo”, con il testo “Angelo della gravità”. Nel 2003 si è classificato secondo al Premio Fersen con il testo «Il tempo ad Hanoi”. Sempre nel 2003 ha ottenuto la “segnalazione di continuità” al Premio Riccione per il testo “Le cose sottili nell’aria”. Nell’agosto del 2008 riceve il premio Franco Enriquez per la drammaturgia. Nel maggio 2008, il Teatro Franco Parenti ha organizzato il “Focus su un autore: Massimo Sgorbani”, dieci giorni nel quale sono stati rappresentati sette suoi spettacoli a cura di Andrée Ruth Shammah. Nel marzo 2013 il suo testo “Blondi” è andato in scena al Piccolo Teatro Studio di Milano. I testi di Massimo Sgorbani sono pubblicati da Ubulibri, con il titolo di “Teatro di Massimo Sgorbani”, da Editoria&Spettacolo con il titolo “Due pezzi quasi comici”.
Lo scorso febbraio lo Spazio Avirex Tertulliano ha ospitato Lo soffia il cielo. Un atto d’amore, spettacolo che nasce da due tuoi testi (Angelo della gravità e Le cose sottili dell’aria). I protagonisti sono una madre e un figlio che dialogano attraverso due monologhi intrecciati, “lei chiusa in casa e teledipendente, lui considerato strano e con grosse difficoltà relazionali”. È un espediente che riporta a un tratto che caratterizza molti dei tuoi lavori. Hai quasi sempre scritto dei monologhi. Soprattutto dei monologhi in cui chi parla non desidera illustrare il significato delle proprie azioni né cercare la comprensione del pubblico. L’utilizzo che fai di questa modalità narrativa sembra piuttosto il riconoscimento della vischiosità del linguaggio, delle parole che dicono sempre qualcosa d’altro, di un pensiero che s’affatica e non è mai del tutto compiuto o logico.
In realtà quando si fa questo tipo di mestiere, chiamiamolo così, le teorizzazioni sono successive alla prassi. Non c’è una scelta preventiva che mi abbia orientato verso il monologo piuttosto che verso il dialogo, col tempo ho semplicemente constatato che mi divertiva, e forse mi riusciva anche meglio, fare quella cosa lì.
All’inizio i colleghi mi invitavano a scrivere altro, dicendo che in teatro c'è una certa diffidenza verso i monologhi. Io mi sentivo quasi in colpa: “Devo scrivere un testo ad almeno due, tre personaggi”, mi ripetevo. Poi leggi Thomas Bernhard e ti rendi conto che sei di fronte a uno scrittore di monologhi anche quando negli spettacoli i personaggi sono più di uno. Si tratta di un’attitudine indipendente da una teorizzazione che giustifichi la scelta, anche se, col tempo, è stato inevitabile che mi ponessi delle domande e riflettessi su questa mia propensione.
Intanto è necessario intendersi su che cosa sia il monologo, in quanto categoria che ne include altre. Innanzitutto c'è il monologo come convenzione del personaggio che parla da solo, con se stesso. Spesso, però, il monologo assume forme differenti come quella di un dialogo con una persona non visibile in scena. È il caso, per esempio, del mio ultimo lavoro su Truman Capote. Capote parla con un personaggio non visibile e che per metà dello spettacolo rimane anche ignoto. Non si tratta quindi di un monologo in senso convenzionale.Nei primi lavori - fino a Innamorate dello spavento - invece, ho fatto ricorso al cosiddetto ‘monologo interiore’, e cioè un flusso di pensieri dove non ha più importanza se tu stia parlando da solo o con un’altra persona.
Mi interessava dare voce a quel flusso di pensieri, perché è un altro mondo. È un’interiorità che viene in qualche modo alla luce. Un soggetto che parla fuori da un’azione drammatica, laddove è chiaro che l’azione drammatica, nel momento in cui esiste, domina la scena e fa sì che i personaggi siano costretti a manifestarsi all’interno di quella azione, di quella situazione e del suo sviluppo nella relazione con l’altro personaggio.
Istintivamente si associa il monologo a una forte staticità. Il corpo sembra fermo, anche se non è vero. Sono le parole a dettare il movimento, a muovere la scena.
Non è sempre così, dipende dal regista. Per esempio, la mia collaborazione più fruttuosa, senza nulla togliere alle altre, è stata quella con il Teatro i. Trovo sia l’unico teatro milanese che faccia davvero una ricerca, con una coerenza e un coraggio ammirevoli.
Con il Teatro i ho lavorato per i tre testi di Innamorate dello spavento, e nella struttura del monologo è emersa una spettacolarità enorme. E non una staticità. Si tratta di interpretare la regia come un correlato scenico del testo: così come nella scrittura del monologo c’è un mondo, in scena è possibile ricrearne un altro. Se leggi il testo dei miei monologhi, noti l’assenza di didascalie di azione: cosa dovrei aggiungere io nel portare alla luce il mondo interiore di un personaggio? Quel mondo è già pieno di cose e azioni possibili. Nella prima versione di Angelo della gravità al festival di Asti del 2004, per esempio, Franco Branciaroli si muoveva molto: prima era su un tappeto elastico poi andava al frigorifero, poi saliva su una grande torta, ma nessuna di queste azioni erano indicate nelle didascalie del testo. Credo che da questo punto di vista, con questo tipo di monologo, un regista abbia una grande libertà.
Innamorate dello spavento si compone di tre testi che descrivono gli ultimi mesi di Hitler attraverso il rapporto del Führer con il suo pastore tedesco, con Eva Braun e Magda Goebbels. Sebbene si tratti di una trilogia, Blondi ed Eva sembrano destinati a formare un perfetto pendant tra loro. Per coerenza, per colore, per struttura (le due protagoniste utilizzano di continuo le stesse parole, sono mosse dagli stessi desideri e ognuna desidera esser l’altra). Da dove nasce l’eccentricità di Magda e che differenza riconosci ai tre personaggi nel rapporto con il loro Führer?
Ho iniziato con lo scrivere Blondi perché desideravo raccontare Hitler dal punto di vista del suo cane, e, indirettamente, il nazismo, o comunque una sua parte. A quel punto ho dato il testo a Federica Fracassi ed è nato il desiderio di vedere chi sono state le altre donne innamorate di Hitler.In realtà sono state più di tre, ma sono tre quelle morte nel bunker con lui. Oltre a Blondi e, ovviamente, a Eva Braun restava Magda Goebbels per chiudere la trilogia. Per lei, in un primo momento, pensavo di utilizzare la stessa struttura monologica specularmente a quella dei due capitoli precedenti, ma non ci riuscivo. Ne parlavo anche con Federica e con Renzo (Martinelli, ndr): in Magda Goebbels c’è troppa tragedia; c’è la tragedia; c’è Medea.
Sono andato a rileggere Medea e tutte le Medee che poi sono seguite. Questa donna che uccide i figli… non riuscivo a venirne fuori. Non riuscivo ad acchiapparla. Non c’era spazio, non dico per la commedia, ma per il gioco. A quel punto ho immaginato che interagisse con Hitler e mi sono complicato ancora di più la vita: come fare a rappresentare Hitler? Pensa, l’idea mi è venuta parlando al telefono con Renzo Martinelli: “Per dar voce a Hitler dovremmo farlo parlare di tutt’altro” gli dicevo. “Non so, di Topolino, di Paperino”. L'ho buttata lì come un paradosso, ma subito dopo mi sono fermato e ho pensato potesse funzionare, anche perché è accertato che Hitler fosse appassionato dei cartoni di Disney e che avesse una copia personale di Biancaneve e i sette nani. Da lì ho trovato un aggancio reale, e nemmeno così aneddotico, perché rivela non tanto il lato infantile del “mostro” quanto l’attenzione di Hitler alla propaganda. Hitler aveva intuito che il linguaggio dei cartoni animati si prestava a essere usato con facilità nella comunicazione, tant’è che commissionò un breve cartone animato in stile Disney, una specie di spot pubblicitario, che promuoveva l'acquisto e la diffusione della radio, strumento indispensabile affinché la voce del Führer entrasse nelle case di tutto il popolo tedesco. È l’inizio della propaganda, che poi è in parte un’invenzione del fascismo…
Alla fine, quindi, il capitolo di Magda si è risolto in un dialogo a due, ma i rimandi agli altri testi sono rimasti. La presenza di Blondi, per esempio, è sempre evocata e restano gli incastri tra le diverse scene che caratterizzano il rapporto tra i due monologhi precedenti.
In Blondi e in Eva si ripete una scena di grande impatto, cui assistiamo da due visuali differenti: Eva Braun e il Führer sono nell’intimità della loro camera da letto, quando si accorgono della presenza del pastore tedesco. Eva reagisce con imbarazzo e quasi con rabbia nello scoprirsi nuda di fronte allo sguardo di Blondi.
In un suo intervento anche Derrida aveva descritto l’imbarazzo di trovarsi osservato dalla nudità dell’altro, del sapersi nudo di fronte allo sguardo della sua gatta, dell’animale. Ci racconti la scelta di costruire un testo intorno a Blondi senza attribuirgli caratteristiche o qualità umane?
Anche in questo caso l’idea di Blondi nasce da questioni pratiche e non teoriche. Non si tratta di ricostruire il punto di vista dell’animale, ma di quell’animale in particolare, ovvero dell’animale che ha un legame indissolubile con il padrone come può averlo un cane. Di devozione totale. Assente da ogni critica e, quindi, con uno sguardo disinteressato. Anche Magda Goebbels ed Eva Braun hanno lo stesso atteggiamento di devozione, ma ciò che mi colpiva del rapporto tra cane e padrone era la sua perversione messa in atto da Hitler. Un cane - soprattutto un pastore tedesco - è sicuramente disposto a morire per il padrone. In questo caso però Blondi non muore per proteggere il padrone, perché è il padrone a darle la morte. E soprattutto muore non per difendere la vita del padrone, ma per garantirgli la morte perché fa da cavia. È un’assoluta perversione di un legame che resta fortissimo. E questo tratto si riflette, in qualche modo, anche nella devozione fino all’ultimo delle altre due donne.In più c’era un altro aspetto che mi colpiva: Blondi nel bunker partorisce la sua cucciolata. Ovvero fa un’esperienza di vita, di maternità – come può farla un animale –, in un luogo assoluto di morte che si contrappone a quello che potrebbe essere un istinto di generazione, di protezione. Al tempo stesso Magda Goebbels uccide i suoi figli, in maniera del tutto contraria a quella che potrebbe essere dettata dall’istintività animale. Il mito del superuomo che il nazismo perseguiva assume la forma di questo rovesciamento, in maniera paradossale e, in un certo senso, perfino logica.
Anche se poi per Magda Goebbels il problema è più complesso. Mi sono sempre chiesto cosa spinga una madre a un simile gesto e non so rispondere. Non lo si può capire fino in fondo, è una logica difficile in cui entrare: avrebbe potuto uccidere se stessa e lasciare in vita i figli. Infatti - ed è una mia invenzione - a un certo punto di Magda e lo spavento Hitler quasi le suggerisce “Perché anche loro?”. Magda Goebbels potrebbe avere avuto il timore che i figli diventassero vittime della memoria della madre, e – un po' come nella Medea originaria – pagassero lo scotto delle proprie origini. Questa resta però una motivazione troppo debole. I figli potrebbero in seguito essere perseguitati da quel cognome, ma è questa la ragione per cui li uccidi? Sono arrivato a pensare che ci sia una forma di pudore, di vergogna: difendere se stessa e non i figli, difendere se stessa dalla memoria che i figli avrebbero potuto averne e dal giudizio che avrebbero potuto dare. Come dire, far scomparire tutto. Non c’è una sola pulsione. Quindi vedi, in Blondi e in tutta la trilogia c’è il discorso dell’animalità, dell’umanità, e del suo superamento nella direzione di un certo superomismo, a cui poi segue la ricaduta in una bestialità ancora maggiore.
“All'inizio non volevo che venisse messo in scena il personaggio di Hitler, credevo fosse una figura irrappresentabile” “Ciò che mi interessava sottolineare era la rimozione della storia che attuano Magda Goebbels e Hitler. È ciò che avviene in Nodo alla gola di Alfred Hitchcock: in un salotto c'è un cadavere messo in una cassapanca, attorno si svolge un cocktail party e la gente incurante parla di tutt'altro. Nello stesso modo paradossale Magda e Hitler defenestrano la storia, parlano di cartoni animati, fanno finta che nulla, fuori dal bunker, stia accadendo. Ma il rimosso torna e la fine dello spettacolo è proprio un fare i conti con questo ritorno”. Mi sembra che emerga di nuovo la grande difficoltà di dare un volto a Hitler senza ricadere nel parodistico o addirittura nell’apologetico. Per questo trovo di grande impatto il lavoro che fai per togliere dalla scena ciò che permette alla scena di tenersi in piedi. In questo senso mi sembra che lavori per un teatro dell’o-sceno, inteso con Bene come ciò che è fuori dalla scena ed estromesso dall’azione dell’attore. Cos’è che rimane sempre fuori dalla scena? Cos’è che non può essere rappresentato?
Il discorso sulla rappresentabilità è un discorso molto ampio, che non riguarda solo Hitler. Sono anni che sostengo sia necessario superare il concetto di rappresentazione, che è ancora molto presente nel nostro teatro e nella nostra drammaturgia. Molti registi hanno lavorato in questa direzione in modo interessante. La drammaturgia, invece, mi sembra ancora troppo legata all’idea della rappresentazione, in quanto scrittura che è re-praesentatio di una situazione della realtà. Questo emerge con ancora più evidenza quando si affrontano temi storici. È chiaro che non avrei potuto aggiungere nulla a quanto era stato scritto su Hitler e sul nazismo né ho mai avuto la pretesa di farlo, perché non sono né uno storico né un politologo. Al di là del suo valore informativo o didattico, il teatro ha o dovrebbe avere un’altra funzione.
Togliere di scena, espressione che usava anche Carmelo Bene, è qualcosa di molto più concreto di quanto si possa pensare, non è un gioco di parole: se metto in scena un fatto che è già accaduto, metto in scena un pezzo morto, un museo delle cere. Posso farlo con belle parole, scene e costumi, ma la materia resta inerte, già accaduta. Se, invece, vogliamo presentificare un fatto, dobbiamo fare in modo che riaccada. Togliere di scena significa proprio questo; nel saggio su Carmelo Bene, Gilles Deleuze afferma, infatti, che il suo teatro procede per amputazioni: amputando un pezzo del testo shakespeariano si fa in modo che l’amputazione ributti, come si dice per le piante, e faccia crescere qualcosa. Magari di abnorme, ma che comunque riprenda una sorta di vita. E questo è quello che tento, a modo mio, di fare. Per esempio, quando presento personaggi storici, cerco di identificare una storia minore all’interno di quella maggiore e di mettere quella in primo piano. La passione di Hitler per i cartoni animati è un fatto che resta ovviamente sullo sfondo rispetto alla grande storia, ma cosa accade se ribalto ciò che ho sullo sfondo e lo porto in primo piano? Cosa succede all’oggetto? L’oggetto rimane lo stesso: è come se tentassi di ristrutturarlo ponendo come base ciò che non era la base e restassi a guardare come si ristruttura tutto il resto, osservando in che forma si può ripresentare lo stesso oggetto. Rivivificando l’oggetto stesso. Per questo dico togliere di scena.
Federica Fracassi, parlando di Blondi, esplicita la difficoltà nell’approcciare questo lavoro perché complesso da memorizzare, privo di appoggi e pieno di raddoppiamenti e combinazioni. D’altronde si tratta di un tratto formale che si ripresenta in molti tuoi lavori: i personaggi di cui hai scritto sono di frequente sommersi dal loro flusso di parole e cercano appiglio nella ripetizione. Se da un lato il linguaggio offre a chi è sulla scena la possibilità di rappresentare a se stesso la propria condizione, dall’altro, rivela anche che la rappresentazione è incapace di restituire un’immagine piena. Questa afasia del linguaggio, mi pare emerga chiaramente in molti tuoi spettacoli. Penso soprattutto a Tutto scorre.
Il tema si collega ancora al discorso sul monologo. Ovviamente, sottraendo la parola al dialogo, all’interazione, alla dimensione in cui il percorso è tracciato dagli eventi, entriamo in una sorta di cortocircuito. Cortocircuito significa che la parola, ingoiata, e non fatta dialogo dispiegato “socraticamente”, ricade in un pre-logico. Ma il pre-logico è caotico. Quando dico cortocircuito intendo dire che la parola è parte di un organismo in cui tutte le parti si relazionano, e – di conseguenza – il linguaggio perde la sua capacità di essere pienamente logico e assertivo. Lavoro spesso su frasi o immagini che poi tornano o comunque rimandano ad altro. Se c’è un’immagine, è la scrittura stessa che ti porta su una traccia che rimane e ritorna in un altro momento, perché dentro questo cortocircuito la valenza della parola stessa è molteplice. In Tutto scorre c’è la pipì: la pipì, il liquido, il flusso, lo scorrimento, si ritrovano in tantissimi momenti del testo, si riflettono continuamente, ed è per questo che il mondo interiore del monologo è un universo sottratto alla logica e che torna al pre-logico, un mondo che è molto ricco senza essere del tutto chiaro nemmeno alla persona che parla.
In Angelo della Gravità hai ripreso un fatto di cronaca avvenuto negli Stati Uniti, in cui l’esecuzione di un detenuto è sospesa perché il condannato avrebbe spezzato la corda a causa del peso. Lo spettacolo è costruito sulle parole di questo ragazzo, il quale, poco prima dell’impiccagione, ripercorre le tappe della sua vita, il cui unico scopo è mangiare: il cibo infatti è diventato la sua ossessione. Quello dell’appetito, della fame o della voracità che non si appaga, è un tema che hai toccato anche in altri lavori (per esempio con Eva e il pasticcio di fegato “Presto, voglio una ciotola piena del mio amore, mangiarmelo tutto in un fiato il mio amore! Voglio mangiarlo, vomitarlo e rimangiarmelo per tutta la notte”). Potresti dirci qualcosa in più su questo rapporto tra amore, cibo e desiderio?
C’è una fonte che forse non tutti conoscono di Angelo della Gravità: la notizia di cronaca si è incastrata, incastonata, con la lettura de Il formaggio e i vermi di Carlo Ginzburg dove si racconta il processo per eresia (e “un'eresia” è non a caso anche il sottotitolo del mio testo) a un mugnaio che aveva inventato una cosmogonia panteistica in cui il mondo nasceva come dal formaggio nascono i vermi. La cosa (siamo nel XVI secolo) sembrò ovviamente inaccettabile. Quella lettura mi ha fatto pensare che sia il mugnaio di Ginzburg che il protagonista di Angelo della Gravità tentano di dare un senso “pieno” alla religione e lo fanno, appunto, a partire dal loro vissuto quotidiano. Il vissuto del contadino erano il formaggio e i vermi. Quello del protagonista di Angelo della gravità, la pornografia e il consumo di cibo. Coerentemente entrambi i personaggi hanno il bisogno di esperire nel loro vissuto, nella vita reale, il religioso, che è il contrario di ciò che è la positività della religione, ovvero un insieme di regole che interferiscono con quanto accade nella nostra vita. Il ragazzo deve conciliare le due dimensioni e le sue riflessioni nascono proprio quando nel braccio della morte gli viene data una bibbia. E lì ecco la sua operazione di rimettere insieme i pezzi: il desiderio del cibo, l’ostia, l’eucarestia, il mangiare il corpo di cristo, la pornografia – l’altro oggetto di cui si è nutrito fino a trasformarsi in una forma di consumo bulimico dell’amore. Il protagonista di Angelo della Gravità cerca il “vissuto” della religione nel mondo totalmente laico dei consumi, abitato dal desiderio compulsivo nel quale, come diceva Lacan, l’inconscio da luogo di proibizione si trasforma in luogo di imperativo a godere. Di questa “laicità” parla anche Pasolini quando dice che la religione, nel mondo dei consumi, viene ridotta a mero folklore, mentre è in atto una vera e propria “mutazione” antropologica, cioè qualcosa che ha a che fare con la radice biologica dei desideri e dei corpi. L’ultimo Pasolini è quello di Salò, e Salò è un film sulla violazione e l’effrazione dei corpi, quindi anche un film che riflette sul desiderio e sulla sua trasformazione. Il riferimento finale a Sade (la cui Filosofia nel boudoir è considerata l’anti-Emilio di Rousseau) rivela quanto, per Pasolini, il percorso pedagogico diventi decisivo per l'instaurazione di un “nuovo ordine” che non ha più bisogno di un'autorità, e tanto meno di un autoritarismo come quello fascista. I corpi “mutati” risponderanno spontaneamente, e senza bisogno di coercizione, alle richieste del nuovo ordine.
Qual è lo stato di salute del teatro italiano? Quali sono le difficoltà che incontra e come valuti la recente riforma Franceschini - con l’istituzione dei Teatri nazionali e dei Teatri di rilevante interesse culturale?
L'impressione è che il provvedimento abbia scontentato un po' tutti e che abbia messo in luce una tendenza a sostenere l'asse portante del teatro cosiddetto “nazionale”, penalizzando realtà minori in cui, a volte, si fa una maggiore ricerca. Il decreto ha avuto come obiettivo, anche condivisibile, quello di risolvere una situazione in cui a certi finanziamenti non corrispondeva una risposta, diciamo così, di mercato. E credo non si possa negare che in passato venissero finanziate in modo consistente realtà che proponevano un teatro di nicchia, poco visibile. Se la valutazione artistica fino a qualche anno fa era concretamente l’unico criterio che contava, adesso i parametri sono cambiati. Si è tentato di bilanciare gli elementi di valutazione, ma ciò cosa ha comportato? Per quanto il metodo precedente possa apparire discutibile, trovo fosse giusto nella logica di principio, perché dovremmo essere in grado di sostenere un certo teatro anche fuori dal mercato. Non sono certo, ma dubito che tutta la musica contemporanea del Novecento, quella dodecafonica per esempio, vivesse grazie alle folle che accorrevano ad ascoltare Dallapiccola. Bisognerebbe cercare di sostenere la cultura anche in questo modo, contro una dinamica aziendale. Il decreto, inoltre, mi sembra abbia promosso una certa stanzialità che ha ridotto la possibilità di distribuire gli spettacoli; anche per i teatri “nazionali”, che riservano i residui margini di distribuzione a cast e titoli di forte richiamo.
*DIEGO FERRANTE
Scrive di filosofia, cinema e teoria critica. Ha curato la traduzione dall’inglese di vari testi di Ernesto Laclau e Chantal Mouffe; collabora con il portale online di Micromega Il rasoio di Occam. Si nutre di letture, di arte e foglie di tè. Talvolta ne legge il fondo. È tra i fondatori di zetaesse. Non sa far nodi, non sa scioglierli.
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