a cura di ANDREA AMOROSO
Tu insegni Economia Pubblica all’Università Magna Graecia di Catanzaro e Cultural Economics all’Alma Mater di Bologna. Quali sono, secondo te, i termini di un rapporto virtuoso possibile fra l’ambito economico e quello pubblico, fra la logica del profitto e la cultura?
MICHELE TRIMARCHI – Pensare che l’ambito economico si riduca al profitto è una distorsione ottocentesca che non tiene conto del fatto che l’economia sia una disciplina umanistica che nasce dalla filosofia. Per autocertificazione gli economisti l’hanno spacciata per scienza; nei fatti però essi descrivono con dei modelli algebrici dei meccanismi che in laboratorio possono anche andare bene, ma non replicano per nulla le scelte che facciamo noi umani. Il tema del pubblico è un tema molto importante, che però ha anch’esso una sua deriva molto rischiosa che sta nella valutazione etica: pensa a quanto si parli negli ultimi anni di beni comuni senza capire bene tecnicamente di cosa si sta parlando. Il pubblico è semplicemente una convergenza di interessi che serve a tenere in piedi una struttura affidabile. Quando, nell’Ottocento, il capitalismo manifatturiero si insedia, serve un’affidabilità relativa al commercio internazionale senza la quale nessuna impresa investirebbe. Dopodiché si fa il Congresso di Vienna, nel 1814, scatta la pace dei cento anni e fino all’attentato di Sarajevo non succede nulla che perturbi l’affidabilità del commercio internazionale. Krupp, infatti, non produrrebbe acciaio se non potesse venderlo anche all’estero. Pensare che l’uomo economico sia razionale è una grossa stupidaggine, razionali sono le macchine, che hanno totale informazione e processi if-then; noi umani, quando va bene, siamo ragionevoli. In più, tutte le scelte nell’ambito dell’economia che facciamo sono anch’esse dettate da sentimenti: non compri più una macchina perché è veloce ma perché in qualche modo ti ci riconosci. Anche l’economia pubblica è un meccanismo che permette di condividere servizi che altrimenti sarebbero inaccessibili: sanità, istruzione, cultura, ordine pubblico. Tutto questo, però, in un modo condiviso, come strumenti che diano alla società la possibilità di funzionare nella piena libertà – che non vuol dire, come pensano gli americani e molti economisti, che ci si debba scatenare in un ambito di libero mercato e chi è più bravo a sopraffare gli altri, vince. Libertà vuol dire autonomia, capacità di esprimersi. L’aggettivo pubblico vuol dire, in ultima analisi, "che riguarda la tenuta complessiva della società".
Quali sono pro e contro del sistema culturale italiano oggi?
MT – Non ci sono pro, ci sono solo i contro. È un sistema autoreferenziale, mummificato, snobistico, che cerca di corteggiare la società, ritenendola impropriamente ignorante, con effetti speciali. Faccio degli esempi banali: la Notte dei Musei e la Domenica al Museo. Sono solamente delle gare per attirare molte persone, ma se queste persone poi stanno, se la godono, ritornano, hanno un impulso a capire e approfondire non interessa per nulla. Il risultato finale è poter dire alla stampa "abbiamo avuto duemila visitatori oggi, che figata". Il sistema culturale italiano è morto perché gli piace lamentarsi, chiede soldi e si sente in diritto di chiederli per motivi meta-etici, ma di fatto non produce assolutamente nulla. È un sistema che va scardinato, deregolamentando. La Costituzione, all’articolo 9, dice che la Repubblica tutela il paesaggio, io sfido sempre a citarmi dieci leggi italiane che tutelino veramente il paesaggio: quante sono? Zero. In più, le riforme attuali – penso a quella che fa dei musei degli enti apparentemente autonomi – non fa dei musei degli istituti autonomi. Che potestà hanno i direttori di modificare i contratti di lavoro? Nessuna. Autonomo vuol dire “che si dà normativa da solo” letteralmente. Deregolamentare subito e accorgersi che la società – che è la più sofisticata mai esistita – fruisce della cultura attraverso canali spesso diversi dai musei e dai teatri. Io fruisco di molta cultura sul web, nelle mie relazioni personali, guardando gli spazi urbani. Altro elemento forte, per chiudere: la cultura è isolata in torri d’avorio e non dialoga per niente con gli spazi urbani, renderla permeabile sarebbe una svolta di 180 gradi. Occorre fare in modo che le persone attraversino i luoghi della cultura durante il loro percorso urbano ordinario, invece spesso i luoghi della cultura sono torri d’avorio respingenti, tetragone e che non si prestano all’uso. Finché sarà così moriremo mummificati.
Il numero tematico della nostra rivista è sulle ossessioni. Negli ultimi anni nel sistema museale italiano mi pare che ci sia una certa ossessività nel tentativo forzato di andare incontro al pubblico con operazioni a dir poco discutibili. Il primo esempio che mi viene in mente è la mostra circense-multimediale su Van Gogh. Tu cosa ne pensi?
MT – Tutto il male possibile, non solo Van Gogh ma anche la già citata Notte dei Musei, la campagna l’Arte ti somiglia e tutte queste cose che credono di avvicinare l’arte al pubblico. È solo un modo di prendere per il culo la gente immaginando che le persone siano stupide e abbiano bisogno di effetti speciali patetici. Il guaio grosso è che oggi le persone sono capacissime di percepire il messaggio culturale di un dipinto, di un’opera lirica, di una sinfonia, di un palazzo, ma a fronte di tutto questo si propinano loro delle cose superficiali ritenendo la società fondamentalmente stupida. Finché la cultura snobberà le persone non avrà più un humus sul quale crescere. Io penso il peggio possibile dello spreco di denaro che si fa con queste operazioni patetiche di comunicazione sbagliata. Se tu attiri la gente con un effetto speciale solamente durante la domenica ma non offri nulla che la invogli a tornare, hai fatto solo numeri. L’ossessione è un’ossessione muscolare; finché la cultura avrà quest’ansia da prestazione da maschio alfa del cavolo si ucciderà ogni giorno da sola. Il paradosso è che le persone, in questo momento storico, vorrebbero tantissimo fare delle esperienze culturali ma le fanno altrimenti.
I finanziamenti pubblici per la cultura – nella fattispecie penso ai film considerati di interesse culturale – in molti casi finanziano prodotti di bassissimo livello estetico, ma dai contenuti ritenuti “socialmente rilevanti”. Le commissioni ministeriali che stanziano i finanziamenti hanno davvero gusti così grossolani ed è possibile che siano rimaste legate a un contenutismo tanto spiccio?
MT – È il principio che è sbagliato: che una commissione giudichi un lavoro culturale su una promessa di contenuto è una pratica censoria, e una democrazia non dovrebbe mai accettare cose di questo tipo. L’unico sistema per sostenere la cultura è darle infrastrutture, cioè dare gratuitamente teatri, musei, spazi, cose, servizi e fare in modo che sia la società a valutare la capacità dialogica dell’offerta culturale. Il valore di un’opera non è determinato dal fatto che un esperto attacchi banalmente un’etichetta, ma è dato dalla sua capacità di parlare, di dirmi qualcosa, che la cultura mi cambi. Cultura, è importante ogni tanto ricordarlo, è il participio futuro del verbo colere, che significa coltivare, cioè “prendersi cura di”. Noi coltiviamo un hobby, una passione, un amore, un interesse e anche la terra. Allora, letteralmente, vuol dire “le cose che saranno state coltivate”, quindi la cultura è un processo, non una cosa. Che la Gioconda sia cultura non è vero, la Gioconda in questo momento non esprime alcun valore culturale: è un’icona che viene fotografata per dire ai parenti – al ritorno in Giappone – “guardate imbecilli, io sono stato al cospetto della Gioconda e voi no”. Io ho una blacklist di imbecilli che vanno al cinema, leggono romanzi, vanno ai musei e rimangono imbecilli, anche poco alfabetizzati. Questo per dire che non è vero che la cultura ci cambia tout court, ci cambia solo se c’è una predisposizione al cambiamento, non è un processo automatico. Raccontare il contenuto dell’offerta culturale andando al di là degli slogan e di un’ossessione verso i numeri: questo andrebbe fatto, ma non lo si fa per nulla. In caso contrario non si produce alcun valore.
Tu hai studiato canto lirico, sei un melomane e dal 2015 sei anche vice-presidente della Fondazione Teatro Comunale di Bologna. Qual è la tua esperienza nella gestione di un teatro stabile e qual è lo stato di salute dell’opera contemporanea?
MT – Gli enti che gestiscono i teatri sono mediamente conservatori, tetragoni a ogni tipo di modifica e spaventati da qualunque tipo di innovazione, non per motivi culturali ma per motivi molto più banali. Mi spiego: fare questa cosa comporterà un aumento del carico di lavoro? Bene, non si fa. Poi c’è il terrore che sia impossibile modificare delle dinamiche consolidate, a me è capitato di tentare personalmente dei progetti banali, anche a costo zero, e di trovare ostacoli non palesi ma semplicemente il rallentamento ad libitum del progetto. Il problema è ci si è dati il grande alibi della società ignorante e si è tralasciato di dare ascolto alle richieste che pure la società esprime. Qualche mese fa hanno scritto su un muro del Teatro Comunale di Bologna “parco giochi per ricchi”: è un atto vandalico, siamo d’accordo, ma non è un’affermazione peregrina se pensiamo che quel teatro è aperto solo dalle otto di sera per fare entrare le signore bolognesi che abitano in collina e arrivano travestite da caramelle per vedere l’opera. Magari, se fosse aperto tutto il giorno, ci andrebbero anche persone normali come me e te. Allora il tema dovrebbe essere domandiamoci chi siamo, mentre in realtà il tema rimane sempre la lamentela, il grande alibi di non essere capiti, fare le vestali incomprese, ecco. La mia esperienza di tutto questo è perciò fallimentare. Prendiamo l’opera lirica, che è il prodotto crossmediale per eccellenza ed è inoltre molto semplice: il soprano ama il tenore ma il baritono non vuole. È la spina dorsale sulla quale si basa ogni serie tv che guardiamo in questo momento – fra l’altro ce ne sono alcune che mi piacciono moltissimo e che seguo. Controversia irrisolta, morti nelle pozze di sangue, splatter, delitti, tradimenti, passione, amore, clandestinità, questi sono i temi dell’opera lirica; e allora dovrebbe essere un invito a nozze per attirare il pubblico, tanto più che è cantata e supportata da musiche bellissime. Purtroppo è rimasta quest’immagine paludata di un’opera come prodotto nobile e d’élite che può essere capita solo da coloro che hanno una certa formazione altrimenti resta incomprensibile. Questa è esattamente la fine dell’opera, la sua distruzione. Io penso a Violetta, nella Traviata, che è una giovane bella, magra e prostituta; se io vedo che al posto di Violetta morente c’è una signora anziana, con una pancia gigantesca, con la mano sul cuore e le gambe larghe, magari non ci credo. Forse sarebbe il momento di cominciare a ragionare su come l’opera dialoghi col pubblico contemporaneo. L’opera in realtà è una saga, con un’ossatura molto simile a quella di tante serie bellissime come House of Cards e Sense8, tuttavia l’idea che ci propinano ce la rende distante, e questo è un grande peccato perché ci impedisce di capire quanto l’opera dialoghi con i nostri tempi. Mozart, quando suonava la spinetta nel Flauto Magico, scherzava con Schikaneder che intrerpretava Papageno e si bloccava per fare ridere il pubblico. Oggi se fai una cosa del genere i puristi mandano centinaia di lettere ai quotidiani dicendo che stai bestemmiando e violentando libretto e spartito.
Quali sono le tue ossessioni musicali?
MT – Più che delle ossessioni vere e proprie ho delle opere fisse dalle quali traggo conforto. Le Nozze di Figaro sono la mia coperta di Linus; quando mi succede qualcosa di negativo mi chiudo in una stanza, mi accendo Le Nozze di Figaro e dopo due ore e mezza mi passa tutto. Mozart, quindi, che per me è la purezza assoluta, che ha un segno talmente evanescente e poi è anche molto ironico, giocoso. Non dimentichiamo che l’italiano è l’unica lingua nella quale suonare non si dice giocare, che è una cosa da sciocchi e boriosi. Un’altra cosa che mi interessa molto sono i linguaggi creativi contemporanei e penso a Fiona Apple in particolare, una cantante straordinaria che secondo me rappresenta la musica dei prossimi anni. Acida, divertente, che inciampa, ironica, sarcastica ma anche fragile; io trovo sempre molto bella la musica che esprime delle fragilità. E penso anche a quell’altro genere di fragilità animalesca che è incarnato dalla musica di Stravinskij. Nel contemporaneo si nascondono molte cose, abbiamo tante strutture creative importanti capaci di raccontare, attraverso la musica, le fragilità contemporanee.
Chiudiamo con una domanda quasi doverosa sull’università: Agamben recentemente ha parlato dello scempio che consiste nella “trasformazione delle facoltà umanistiche in scuole professionali”. Quante possibilità ci sono che l’università italiana si salvi dal disastro?
MT – Quasi nessuna, per un motivo abbastanza banale; quelli più giovani di me, che sono veramente tanti, dato che io sono quasi alla pensione, amano molto questo sistema perché è protettivo. Misuri tutto in maniera sterile, a ogni materia corrisponde un numero di crediti e a questo numero di crediti corrisponde un certo numero di pagine. Noi misuriamo la performance dello studente in pagine, in ciò che è misurabile banalmente. Così facendo cosa facciamo? Alimentiamo l’ansia da prestazione, le manie da maschio alfa culturista e in più creiamo dei cloni. Le prime cose che dico quando entro in aula sono le seguenti. Primo: chi vi chiama giovani vi sta fregando perché finché siete giovani si sentono in diritto di tenervi fuori dal mondo. Pretendete che vi si tratti da adulti, da professionisti, che siate o no giovani anagraficamente non vuol dire niente. Secondo: non permettetevi di mandarmi un curriculum europeo, che è il primo passo verso la clonazione. L’università in questo momento crea cloni servili, vuole braccia ma non cervelli, insegna quelli che ritiene essere dei punti fondamentali, valuta su quei punti fondamentali e purtroppo questo comporta la selezione di quegli studenti più avversi al rischio, più stronzi, cinici, cattivi e competitivi. Lo dico da economista: la competizione è la cosa più dissipativa che esista al mondo: è uno spreco, competere è sempre stupido. Gli artigiani del funduq africano non competono, si scambiano un sacco di idee, dopodiché ognuno si occupa dei propri talenti e delle proprie qualità. Non competono mai per rubare il cliente all’altro ma cooperano per il consolidamento della clientela. Il problema fondamentale è che noi abbiamo perso completamente il rapporto col tempo: università vuol dire ogni cosa, dovrebbe tendere a qualcosa di ampio, dovrebbe favorire i rapporti di mentoraggio (gli inglesi usano il termine mentoring), ma questo rapporto maestro-allievo è completamente scomparso. Oggi abbiamo un rapporto fra un burocrate, il prof, e un suddito, lo studente, che deve replicare esattamente i modelli forniti dal prof e riempirli con i dati che gli sono somministrati. Questo se va bene. Dopodiché si dà al povero studente un bel pezzo di carta che non gli servirà assolutamente a niente. Nel futuro, gli unici che lavoreranno saranno i fornitori di contenuti, con buona pace di tutti i cloni che stiamo creando. Fornitori di contenuti significa coloro che, fuori da tutte le convenzioni universitarie attuali, sapranno capire che il mondo va organizzato in modo non convenzionale producendo contenuti che fanno vedere le cose in modo diverso; fornitori di contenuti vuol dire coloro che sono capaci di offrirti una diottria in più per interpretare quello che ti sta intorno. Meno definibili saremo e meglio funzioneremo in futuro. I lavori più pagati negli States nel 2010 non esistevano nel 2000, forse l’università dovrebbe iniziare anche a ragionare su questo. Finché insegniamo delle cose dell’Ottocento abbiamo fallito: se una mattina dovessi aprire il giornale e leggere “l’università italiana è fallita” sarei dispiaciuto ma non mi sorprenderei.
*ANDREA AMOROSO
Si occupa di letteratura italiana del Novecento, ma non solo. È uno dei sei fondatori di zetaesse. È una persona qualunque.
Comments