di MARIE MARLARD
Il silenzio mi avvolge ormai da più di due ore. Il respiro lento del computer copre il mio, un ronzio potente, a volte stanco, punteggiato dai clic del mouse. Una melodia minimalista. Il mio quotidiano. L’ufficio non fa più di quindici metri quadri. Non ci sono finestre. L’unica luce proviene da una lampada buttata là, per terra, rigorosamente dietro lo schermo. Il corpo astratto del computer emerge, in controluce. Ogni giorno quando entro, ritrovo questa forma stagliata, identica; il familiare m’è dolce. Quando avevo vent’anni volevo vedere il mondo, di viaggi ne ho fatti, anche tanti, ora viaggio nelle immagini. Sarà la maturità. All’inizio sembra una rinuncia, poi capisci che non lo è. Basta poco, il giusto, quello che ti piace.
Mi piace questo silenzio, mi piace Madeleine.
All’inizio quando restauravo un film cercavo la perfezione, cancellavo e mascheravo ogni piccolo graffio. Solo con il tempo ho imparato quanto certi graffi, certi difetti, quel leggero tremare dell’immagine facevano parte del film. Impercettibili eventi, una drammaturgia d’ombra e di luce. Ora curo solo le ferite più profonde, quelle da cui non puoi guarire da solo, quelle che rendono i visi meno luminosi, gli sguardi spenti, i corpi fragili. Il resto lo lascio, è storia.
Ho incontrato Madeleine cinque anni fa eppure me la ricordo bene, era come me, aveva poca consistenza. Trasportava la sua sagoma delicata di stanza in stanza, le sfumature di grigio e di bianco del suo vestito si staccavano a malapena dallo sfondo. Dei film mi rimangono soprattutto le immagini, una sfilza infinita di fotogrammi, corretti e ritoccati uno a uno. 24, 48 volte la stessa immagine con delle leggerissime variazioni. Sola davanti al computer, vivo di differenze e ripetizioni. Il tempo scorre più lento, diventa ciclico, i giorni si perdono nei dettagli di un viso, di un paesaggio. Il volto di Madeleine mi era ormai così familiare e così estraneo. Era diventato segno.
Mi sono segnata il timecode del fotogramma sul piccolo quaderno nero che uso come diario. Uno per ogni film sul quale lavoro. Di solito ci scrivo gli interventi fatti, i livelli luminosi, tutte quelle cose che fanno del mio lavoro un tecnicismo che, a volte, mi annoia. Quella sequenza astratta di numeri però questa volta non c’entrava niente con la tecnica, ma con l’emozione.
C’è chi si segna la data del primo appuntamento, io ho scritto il codice orario di un’inquadratura. Sorrido. Può sembrare ridicolo ma ci sono delle immagini che sono come un incontro, un uomo di cui ti innamori e nei cui occhi ti vedi come se fosse la prima volta, uno specchio dell’anima, impietoso e salvifico. Che cosa ho visto in quel viso che si dimena e diventa l’ombra di se stesso? Qualcosa che s’infiltra nella coscienza fino ad incontrare le immagini sedimentate nella memoria, le acque scure dell’inconscio, le paure e le speranze folli. Ho visto una donna lottare per non sparire. Come se rallentare l’immagine lasciasse intravedere il moto stesso della vita. Madeleine non è particolarmente bella, anzi nel rivedere il film anni dopo, quel viso di cera, quell’aria perennemente tragica mi ha dato fastidio. È la sua sparizione e il modo in cui cerca di resisterci che sono belli, fotogenici.
Ricordo che dopo aver visto queste immagini, smisi di lavorare su La chute de la Maison Usher per un paio di giorni. Mi copiai e mi portai a casa quelle immagini. 21 secondi di film. La mia coinquilina quando le vide le trovò lugubri. Avevano a che fare con la morte sì.
Siccome non mi ritenevo una persona particolarmente lugubre, mi chiedevo ancora perché queste immagini mi avevano colpita in questo modo. L’idea che un’immagine possa essere qualcosa che ti rimane dentro non è qualcosa che l’epoca riesce bene a capire. In quel paio di giorni mi capitò più volte di incrociare per casa la mia coinquilina che mi guardava con un occhio circospetto, come se avessi contratto una malattia contagiosa e che non glielo volessi dire. Gironzolavo per casa senza fare niente. Nel cercare di capire che cosa mi volesse dire Madeleine, ho anche letto il racconto da cui è tratto il film: man mano che Lord Roderick Usher dipinge il ritratto di sua moglie Madeleine, come se gli rubasse la vita, la donna svanisce e muore. Il fantasma di Madeleine torna a trovare suo marito, provocando l’incendio della dimora.
Nel film mentre la donna scompare dallo schermo, vediamo lo sguardo insistente, quasi allucinato, di Roderick. Amore, immagine e sparizione. Un ballo a tre tempi. Ero fottuta, cominciavo a capire.
Uscii. Non volevo più pensare ma perdermi nel caos della città. Il sole era appena tramontato e le vie dietro casa mia erano piene di gente che se la passeggiava. Chiacchiere, motori e clacson. Roma. Mi sedetti ai tavoli di un bar e chiesi un prosecco. Le unghie rosse della cameriera che poggiava sul tavolo uno ciotolino di olive mi saltarono all’occhio. Ero tornata nel mondo a colori. Con il suo romano strascicato la cameriera lanciò una battuta al gruppo di vecchi seduti al tavolo affianco. Mi sentii sollevata e improvvisamente felice.
Nei giorni successivi non pensai a Madeleine. Al lavoro finii la scansione in digitale della pellicola del film. Erano solo gesti, materia trasformata in dati. Niente pensieri. Eppure qualcosa si faceva strada dentro di me. Altre immagini di sparizione. Una serie di fotografie scattate da mio padre che avevo trovato una volta che rovistavo di nascosto fra le sue cose. Nella prima foto, mi si vede da ragazzina, nel giardino di casa nostra, in piedi su un piccolo falò improvvisato, un pezzo di tessuto annodato copre i miei fianchi stretti da bambina, i capelli sfilacciati mi cadono sulle spalle. Nella seconda foto, dal falò, sotto i piedi della bambina, esce un po di fumo. Nella terza, il corpo è completamente avvolto dal fumo, la sagoma umana diventa trasparente. Nella quarta, il falò comincia a bruciare, s’intravede ancora un volto sfocato. Nella quinta, le fiamme sono alte, non c’è più traccia della bambina..
Sul momento, mi mise a disagio il fatto di non ricordare niente di questa scena. Come se mi fosse stata rubata. Eppure qualcosa mi piaceva nell’essere stata oggetto delle sue messe in scena. Un’attrice che con il suo corpo incarna il desiderio di un regista, rende possibile l’esistenza del suo mondo, è un mezzo, è tutto, è niente. Forse è questo che è difficile sopportare, essere tutto e niente.
L’immagine non ha mai un significato univoco, ci fa vedere quello che vogliamo vedere. Mi chiedo, mio padre aveva bisogno di farmi sparire? Sarà semplicemente l’esperimento di un giovane fotografo o un modo per esprimere un desiderio inconscio, esorcizzare una presenza? Oggi il fantasma che appare e scompare, è lui. Che cos’è questo fuoco che brucia? Amore?
Ho ripreso il restauro del film e dopo altri due mesi di lavoro, l’ho concluso. Ne ho cominciato un altro, e poi un altro ancora. Madeleine si è allontanata. A distanza di tempo, quello che mi ricordo di queste immagini è semplicemente la bellezza. Perché contengono qualcosa della tragicità dell’amore.
Le immagini presenti nel racconto sono estratte dal film La chute de la maison Usher (La caduta della casa Usher) di Jean Epstein, girato del 1928 e tratto da un racconto eponimo di Edgar Allan Poe.
*MARIE MARLARD
Vive fra l'Italia e la Francia. Si occupa di cinema, di scrittura e di pedagogia. È autrice di un cortometraggio girato nel 2014, E tu, non incontri fantasmi vaganti?
Comments