di MASSIMO CELANI
UN BESTIARIO DI SPAZI
“Giustezza”, “spaziatura”, “interlinea”: sono le distanze nascoste a cui il nostro occhio si abitua prima del nostro cervello. Prim’ancora della prossemica e dell’epidemiologia, prima dell’abitudine alla lettura. Ma a Salvini, Meloni e Santelli, insomma ai nostri infimi politicanti, chi glielo spiega? E pure al nostro ministro degli esteri, già vicepremier del governo precedente, quello del movimento né di destra né di sinistra, che si muove imperterrito in spazi non orientati (tanto loro sono post-ideologici) che ha governato prima con la destra estrema e ora, impunemente, pensa di fare le stesse cose con ciò che resta di una sinistra afflitta dall’abuso di gastro-protettori?
Chi glielo spiega che, anche nel clima di una nuova collaborazione tra governo e opposizione, non sappiamo cosa farcene delle loro proposte immancabilmente identiche (anche se ondivaghe) e massimaliste, centrate sull’inasprimento delle “misure” e sugli “investimenti illimitati”. Chi spiegherà alla Meloni, la paladina del blocco navale e di “affondiamo le navi delle Ong”, allo statista di “prima gli Italiani” e della chiusura dei porti, e pure a quello dei “taxi del mare”, del “partito di Bibbiano”, de “i Benetton”, che - prima del semplicismo demenziale, della miopia, dell’altruismo e della carità cristiana, prima dell’intelligenza e dell’etica - si pone forse una questione estetica e “optometrica”? [1] Onore, vanto, “bandierina” dei 5 leghe è tradizionalmente la riduzione del numero dei parlamentari. Un fantasma di assembramento che si manifesta nel peggior periodo di diaspora e di liquidazione del Movimento. In quel vuoto etico, strategico e politico, non a caso si staglia il commento di rara raffinatezza di Paola Nugnes, insieme a Gregorio De Falco confluita da tempo nel gruppo misto: “Quanta ignoranza istituzionale e spregio costituzionale. Solo chi non comprende la bellezza della nostra architettura parlamentare può parlare così impunemente di un taglio drastico, lineare ed inutile della nostra rappresentanza. Chi favorirà questo taglio? La spesa? Troppa poca cosa per tale enfasi, per tale compiaciuta soddisfazione vendicativa, favorirà i capi di partito e gli interessi di pochi sui molti. E i capi di oggi non saranno sicuramente i capi di domani, per questo le leggi e i regolamenti dovrebbero essere sempre neutri”. Un’architettura che ha nel taglio delle teste, della casta, un raddoppio di quello – autoinflitto - degli stipendi. Una castrazione demagogica che ha provocato molti malumori e pure qualche estromissione.
Specie di spazi rappresenta il lavoro svolto da Perec all'interno del progetto rappresentato da Cause commune, rivista che lo impegnò, accanto a Paul Virilio e Jean Duvignaud, tra il 1972 e il 1974. Un lavoro che, più di tutti, ha a che fare con l'indagine sociologica e antropologica. È lo stesso Virilio a contribuire alla ricostruzione della genesi del libro: «All'origine di Espèces d'espaces c'è una mia commissione. Chiesi a Perec di fare per lo spazio l'equivalente di quello che aveva fatto, in Les choses, per le cose. Mi rispose che avrebbe scritto un "bestiario di spazi", che avrebbe mostrato diverse specie, come si fa con le differenti specie d'animali» [2].
L'approssimarsi di Perec allo spazio pone come premessa metodologica la necessità di descriverlo. La sua lente di ingrandimento mette a fuoco anche i particolari più insignificanti, estrae dal contenitore che è lo spazio tutto ciò che vi è contenuto, perché solo in questo modo potrà padroneggiarlo, trasformarlo in qualcosa di comprensibile, di attraversabile. L’analisi del dato spaziale, infatti, coincide in Perec con un'indagine del quotidiano, con il fine di «intraprendere un'investigazione della vita quotidiana a tutti i livelli, nelle sue pieghe nascoste e nei suoi anfratti generalmente trascurati o rimossi». [3]
Il caso di Rino Mele è un distanziamento forzato, parossistico, da Coronavirus, qualcosa che si situa molto al di là del cosiddetto enjambement. [4] I versi di Verso dove?, pur essendo del 2003, “sono così vicini all'angoscia di questa crisi che ha violato tutti, e all'irriconoscibilità in cui siamo caduti, dalla quale ancora non siamo salvi”.
Non resta / sul pavimento che un poco / d'ombra, la terra che la visione lascia / quando scompare. Mi chiedi / cosa sia la bellezza. È lo sporco sul davanzale, / la paura / di addormentarsi, (...). [5]
Scrive Mario Santagostini: "Abbiamo visto il valore degli spazi bianchi per l'economia del testo poetico, sia nel marcare il ritmo sia nell'evidenziare certe "sospensioni" sia nell'indurre il lettore all'attesa", oltre che denotare la pausa e dare al lettore il segnale che è giunto il momento di riprendere il respiro. Ma "lo spazio bianco può essere utilizzato ben al di là delle esigenze ritmiche (...) Disperdendo le pause, il poeta ha dunque alzato al limite il contrasto tra scritto e non scritto, tra interno ed esterno, dando insomma un particolare valore a ciò che sta fuori delle parole." [6]
Per Rino Mele, al contrario ad esempio di Perec, non sembra esserci addomesticamento del dato spaziale (cosa che fa a volte abilmente il testo poetico e il professionista della metrica). Non si tratta di cesura tra due emistichi, a maiore, dopo il settenario o a minore, dopo il quinario.
«Lo spazio comincia così, solo con delle parole, segni tracciati sulla pagina bianca. Descrivere lo spazio, nominarlo, tracciarlo, come gli autori di portolani che saturavano le coste di nomi di porti, di nomi di capi, di nomi di cale, finché la terra finiva con l'essere separata dal mare soltanto da un nastro continuo di testo». [7] Non siamo nell’infinito leopardiano, tra gli «interminati / spazi di là da quella, e sovrumani / silenzi, e profondissima quiete / (… )». Ma, proprio con Perec, “suscito dei bianchi tipografici, degli spazi (salti di senso, discontinuità, passaggi, transizioni)”.
Scrivo
nel
margine…
Vado
a capo. Rinvio ad una nota a pie’ di pagina
[8]
Eccoci qui ricongiunti all’arguzia di Umberto Eco, come ironica characteristica universalis della poesia (e della prosa). "La poesia è quella cosa che va a capo prima che la pagina sia finita, e la prosa quella che continua sino a che si può sfruttare una porzione di carta, riducendo al massimo i margini, perché la carta costa, anche in senso ecologico, e piuttosto che andare a capo troppo in fretta si accetta anche di spezzare una parola in due, ciò che la poesia di solito non fa, salvo nei deliri della più estrema avanguardia, e guardate quanto tira lunghi i suoi versi, l'avanguardista Sanguineti, da buon genovese, pur di non comprare un altro quaderno." [9]
Se enjambement ha riscosso una certa fortuna presso la critica e continua a tutt’oggi a essere largamente impiegato, ciò non ha arrestato il proliferare di etichette proposte dalla stilistica delle differenti scuole europee. Padre Ireneo Affò di Busseto, nel suo Dizionario Precettivo, critico e istorico della poesia volgare, registra la figura sotto la voce di “intralciamento”, definendola anche “ingambamento”, mentre più di recente Mario Fubini invitava ad adottare il termine “inarcatura”. Si ricorda ancora il calco spagnolo “accavalciamento” (encabalgamiento) proposto da Marouzeau per l’italiano, ma non attestato altrove. La critica tedesca ha ancora definito il fenomeno Versbrechung, mentre nei paesi anglofoni è comunemente noto come run-on line. “Questa incertezza terminologica attesta indubbiamente l’attenzione della critica verso il fenomeno, ma al tempo stesso mostra un certo imbarazzo nell’identificarne con chiarezza i tratti distintivi. Ciò dipende dalla natura stessa del procedimento che, come abbiamo già accennato, è connaturato alla versificazione e rischia in alcuni casi di essere appena percepibile. È necessario, quindi, identificare una definizione chiara della figura, isolarne le differenti forme, e cercare, per quanto possibile, di misurarne il grado di rilevanza stilistica. Appare intuitivo che non tutti gli enjambement abbiano una medesima “temperatura”. La gradazione stilistica di un enjambement dipende in particolare da due fattori, la posizione della pausa sintattica nel verso e l’estensione del segmento rigettato. A tal proposito sarà utile citare la definizione di Grammont, il teorico che maggiormente ha contribuito a codificare il fenomeno insistendo su questi aspetti. [10]
Ponendo l’accento sulla struttura bipartita dell’enjambement (il fenomeno investe, infatti, due versi), introduce il concetto di rejet, il “rigetto” nel verso successivo di una parola o di un segmento sintattico: quand une proposition, commencée dans un vers, se termine dans le suivant sans le remplir tout entier, on dit qu'il y a enjambement, et la fin de proposition qui figure dans le second vers constitue le rejet. L’estensione del rejet, che può suggestivamente limitarsi a una singola parola o prolungarsi fino alla fine del verso, risulta non priva di rilevanza stilistica («plus le rejet s’allonge, plus sa force diminue»). [11]
Sarà l'unità metrica a essere spezzata dalla continuità del senso, o viceversa è quest'ultimo a essere spezzato dalla conclusione dell'unità metrica? Comunque, con tutte le perplessità e gli interrogativi, si è imposta una certa convergenza su "spezzature", oltre che sul più tecnico-stilistico "inarcature". [12]
La scienza derivata dall’etica sadiana, soprattutto se in salsa contemporanea, ha realizzato però un déblaiement — uno spianamento del terreno (1. sterramento; (edil.) sbancamento; 2. sgombero) e questo rinvia al Kant con Sade evocato da “Mele avec Perec” col quale ho voluto titolare il presente omaggio a più di un maestro indiretto, proprio a partire da Rino Mele.
Lacan associa il “boudoir sadiano” alle Scuole della filosofia antica, dove “si prepara la scienza rettificando la posizione dell’etica.” [13]
Forse non a caso rinveniamo questo suo incipit in Accecarsi, scritto per i settant’anni di Edoardo Sanguineti.[14]
Tirare le parole verso il basso, aspra scarpata, forra, un canale scosceso, strada ferrata e lì, in quello sterro, luogo bruciato, inferno, alzare i pali, stendere una tenda, due stracci colorati, un sipario sulla scena vuota. Cacciarvi all’improvviso uno spot, un proiettore, mascherato sole senza luce che faccia di quel quadrato un lago. (…)
Interessante, ma forse è un’associazione d’idee che mi ha condotto a Perec (un autore suppongo lontano da Rino Mele):
Penso spesso alla quantità di manzo che occorrerebbe per fare un brodo con il lago di Ginevra (Pierre Dac, L’os à moelle).[15]
Contrappunto o continuazione virtuale, anche se non Sanguinetiana, di quel mascherato sole senza luce / che faccia di quel quadrato un lago.
È curioso, o una coincidenza che dopo Elvio Fachinelli abbiamo preso a inscrivere nel registro della claustrofilia [16], che la prima pagina di Specie di spazi riproduca un quadrato vuoto, con sotto una didascalia
Quanto sia urbanistica e prossemica la testualità, e in particolare da situare nelle pratiche del movimento terra quella di Georges Perec e di Rino Mele, è evidente dai tempi di Soglie: i dintorni del testo [17]. Si fanno degli incontri, anche se i no-Tav e la maggior parte della sovradimensionata rappresentanza cinquestelle – ai quali l’esercizio della lettura e della complessità è barrata – non avranno modo di saperlo:
“Eppure provo sempre qualcosa che assomiglia allo stupore quando penso all’incontro degli operai francesi e degli operai italiani in mezzo al tunnel del Moncenisio”.[18]
E in altro luogo: “Non ci sarà più la scritta in lettere di porcellana bianca incollate ad arco sulla vetrina del piccolo caffè di rue Coquillière: “Qui si consulta l’elenco telefonico” e “Spuntini a tutte le ore”. [19] Qui evidentemente l’inarcamento si letteralizza, si porcellanizza.
Per Rino Mele l’enjambement è forse mentale, prescinde dai canonici conteggi metrici, aspro o forse “gonfiato” (come lo si direbbe dei muscoli di un culturista e – con lui - di Sanguineti), di qualcuno che viene dall’ aspra scarpata, dall’hardness dello sterro, dalla produzione di sterrato.
In questo senso, secondo Lacan, Sade non anticipa Freud ma, piuttosto, la scienza derivata dall’etica sadiana ha realizzato un déblaiement — uno spianamento del terreno, uno sgombero — che ha dovuto continuare per cent’anni nelle “profondità del gusto”, dello stile di vita, affinché “la via di Freud fosse praticabile”. [20] La cosa credo sarebbe stata di assoluto interesse per Perec.
Ad un certo punto Lev Vygotskij "fa sua la celebre frase di Dostoevskij per cui, in certi casi, il pensiero non entra nelle parole". Salvo forse che come “sbancamento”. Poco più avanti il compianto Giovanni Cacciavillani cita un seminario di Wilfred Bion: "Un caso particolare di spazio è rappresentato dalla parola. Questa è un esempio di luogo dove riporre qualcosa: il significato da trasmettere". [21]
Il pensiero non entra nelle parole, lontano ovviamente Dostoevskij dagli approdi lacaniani, perché sono quelle stesse oggetti e luoghi dove riporre qualcosa, secondo una tradizione che va da Jung (“Poeta è colui che sente l’oggetto”) a Bion e Salomon Resnik.
Secondo Leopardi è Tutta questione di sensorio, di pensiero senziente, e pure di sterratori e scarriolanti.[22] In tempi a noi più vicini, con Heidegger, l'aperto (das Offene) può lasciar sorgere ogni cosa, "riposandola in lui stesso"; anzi è invitato a farlo. “(...) dovremmo cercare ciò che è peculiare dello sgomberare nella fondazione di località e dovremmo meditare la località come gioco d'insieme di luoghi”. «Le cose stesse sono i luoghi e non solo appartengono a un luogo».
Il Sachverhalt “inquietante” (befremdend) è che il luogo non si trova in uno spazio già dato secondo le modalità dello spazio tecnico-scientifico. Il volume ... non costituirà più la reciproca delimitazione fra spazi, le cui superfici separano un interno da un esterno, e lo spazio vuoto, non costituisce una privazione, bensì un produrre. Il vuoto non è un nulla. Non è nemmeno un difetto o una mancanza. Così sistemata, in termini heideggeriani, torniamo a Specie di spazi:
«Vorrei che esistessero luoghi stabili, immobili, intangibili, mai toccati e quasi intoccabili, immutabili, radicati; luoghi che sarebbero punti di riferimento e di partenza, delle fonti: il mio paese natale, la culla della mia famiglia, la casa dove sarei nato, l’albero che avrei visto crescere (che mio padre avrebbe piantato il giorno della mia nascita), la soffitta della mia infanzia gremita di ricordi intatti ... Tali luoghi non esistono, ed è perché non esistono che lo spazio diventa problematico, cessa di essere evidenza, cessa di essere incorporato, cessa di essere appropriato. Lo spazio è un dubbio: devo continuamente individuarlo, designarlo. Non è mai mio, mai mi viene dato, devo conquistarlo. I miei spazi sono fragili: il tempo li consumerà, li distruggerà: niente somiglierà più a quel che era, i miei ricordi mi tradiranno, l’oblio s’infiltrerà nella mia memoria, (…) Come la sabbia scorre tra le dita, così fonde lo spazio. Il tempo lo porta via con sé e non me ne lascia che brandelli informi. Scrivere: cercare meticolosamente di trattenere qualcosa, di far sopravvivere qualcosa: strappare qualche briciola precisa al vuoto che si scava, lasciare, da qualche parte, un solco, una traccia, un marchio o qualche segno». [23]
Rino Mele invece, che è studioso di cose teatrali, ha chiaro il distinguo tra palcoscenico e retroscena e sa che "Vivere, è passare da uno spazio all'altro, cercando il più possibile di non farsi troppo male." [24]
È probabile allora che le Mele e le Pere(c) si possano sommare.
Ma questo è un altro capitolo.
1. La misura dell’acutezza visiva; estens., la scelta delle lenti necessarie per correggerne i difetti. 2. In senso più specifico, disciplina a livello scientifico ma non medico, che analizza il processo visivo per mantenerne o rafforzarne l’efficienza in rapporto alle necessità dell’ambiente). Sottolineo: “per mantenerne o rafforzarne l’efficienza in rapporto alle necessità dell’ambiente”. 2. In Paolo Melissi, sulromanzo.it/blog/georges-perec-specie-di-spazi 3. Paolo Melissi, op. cit. 4. Procedimento stilistico frequente nella poesia delle lingue sia classiche sia moderne, consistente nel dividere una breve frase, o un gruppo sintattico intimamente unito (per es., un sostantivo e il suo attributo, il predicato e il soggetto o il compl. oggetto), tra la fine di un verso e l’inizio del verso successivo, operando così una legatura metrica che ha lo scopo di rendere più ricco e sostenuto il ritmo dei versi, spec. di quelli brevi, oppure di dare un rilievo a una parola particolarmente significativa, isolandola; In italiano, sono stati talora usati con lo stesso senso i termini inarcatura e accavalciamento. Inarcatura: Incurvatura ad arco: l’i. di una struttura a volta; l’i. delle sopracciglia, accavalciatura dal fr. ant. achevalchier, der. di chevalchier «cavalcare»] (io accavàlcio, ecc.). – Stare sopra una cosa a cavalcioni, come stando a cavallo: a. una seggiola, un muretto; a. le gambe, [...] metterle una sopra l’altra (più com. accavallare); estens., letter.: un piccolo ponticello accavalcia il torrente. 5. Rino Mele, I dolorosi discorsi, Sottotraccia, 2003. 6. Mario Santagostini, Il manuale del poeta, Mondadori, 1988. 7. Georges Perec, Specie di spazi, Bollati Boringhieri,(Espèces d'espaces, 1974) trad. di Roberta Delbono, pag.19. 8. Mi piacciono molto le note a pie’ di pagina, anche se non ho niente di particolare da precisare. 9. Umberto Eco , Sugli specchi e altri saggi, Bompiani, 1985. 10. Paolo Dainotti, Word Order and Expressiveness in the "Aeneid", translated by: Ailsa Campbell, De Gruyter, 2015. 11. Alonso distingue tra enjambement “aspro e spezzato” o “soave” specificando che nell’enjambement aspro il senso delle parole «si prolunga da un verso all’altro ma poi, nel secondo (…) improvvisamente si interrompe» mentre in quello soave «continua senza interruzioni fino alla fine del secondo»; anche Hollander evoca un “hardness and softness of enjambements”. Dàmaso Alonso, Saggio di metodi e limiti stilistici, Il Mulino, 1965. 12. Costanzo di Girolamo, Teoria e prassi della versificazione, Il mulino, 1976. 13. Si osservi che Lacan rilegge l'opera sadiana, in particolare La filosofia nel boudoir testo scritto dal Marchese De Sade otto anni dopo la Critica della ragion pratica kantiana. J. Lacan, Kant con Sade, in Scritti, Vol. II, Einaudi, p. 765. 14. AA.VV., “Per Edoardo Sanguineti: good luck (and look)”, a cura di Pietropaoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2002 (poi ripubblicato in “I dolorosi discorsi”, Sottotraccia 2003). Qui appresso il testo integrale: cronachesalerno.it/accecarsi 15. Georges Perec, op.cit. pag.103. 16. Elvio Fachinelli, Claustrofilia, Adelphi, 1983. 17. Gérard Genette, Soglie: i dintorni del testo, a cura di Camilla Maria Cederna, Einaudi, 1989, (ed. orig. Seuils; Paris, Seuil, 1987). 18. Georges Perec, op.cit., pag.107.
19. Georges Perec, op.cit., pag.110. 20. Jacques Lacan, Kant con Sade, in Scritti, Vol. II, p. 765. 21. Giovanni Cacciavillani, Il pensiero senziente. Per un'estetica psicoanalitica kleiniana, Panozzo editore, 2012. 22. … ingaggiava sterratori e scarriolanti per iniziare lo scavo dei canali di scolo (Bacchelli). Ammetto che le facies macilente di Geoges Perec, Edoardo Sanguineti e Rino Mele, in versione anabolizzata, fanno un po’ ridere.
23. Georges Perec, op.cit., p.111. 24. Georges Perec, op.cit., p. 12.
*MASSIMO CELANI
Scrive testi pubblicitari e si occupa di cani randagi. Per quantità e cura i secondi superano i primi.
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