di MARIA LAURA SANTOPAOLO
Contenuto nell’intestino, apparato digestivo per eccellenza, c’è un vero e proprio secondo organo: il microbiota intestinale, spesso definito come organo nascosto oppure organo dimenticato.
A differenza di altri organi – ad esempio: cuore, fegato, stomaco, rene – costituiti prevalentemente da cellule dello stesso tipo, che condividono lo stesso patrimonio cromosomico e sono determinate geneticamente a strutturarsi come entità unica, il microbiota è invece un insieme di differenti microrganismi, ognuno con il suo corredo genomico: batteri simbionti o opportunisti di specie diversa che convivono in un habitat comune rappresentato dal tratto gastroenterico. Tutto intero, dalla bocca fino al retto.
Complessivamente le cellule batteriche che colonizzano l’organismo umano – insieme all’intestino, anche cute e mucose – sono circa 2,7 volte maggiori di quelle che consideriamo propriamente nostre, con un peso medio complessivo di 2,3 kg (di cui 1,3 kg è rappresentato dalla sola microflora intestinale, un peso non dissimile da quello del cervello). Tant’è che ci si chiede se non sia piuttosto l’uomo a colonizzare il microbiota.
Ciò che conferisce l’ontologia di organo al microbiota intestinale è la sua capacità di svolgere funzioni essenziali per la fisiologia del corpo umano. È ormai noto che l’azione del microbiota sovrintende la produzione di vitamina K (essenziale per i processi coagulativi), l’assorbimento di farmaci, l’estrazione di energia dagli alimenti (grazie ad esempio alla fermentazione di alcuni carboidrati altrimenti non digeribili dalle cellule intestinali), l’assorbimento di acqua e minerali e, infine, certe funzioni immunomodulanti coinvolte nella risposta a infezioni o nella patogenesi di malattie autoimmuni.
In tempi più recenti si è iniziato a comprendere il ruolo del microbiota nella regolazione dell’asse intestino-cervello (Gut-Brain Axe, GBA). Il GBA è un sistema di controllo bidirezionale che permette a cervello e intestino di comunicare tra loro attraverso una rete complessa di neuropeptidi, neurotrasmettitori ed enterormoni. Il risultato finale dell’interazione non è solo il mantenimento della corretta funzionalità intestinale da parte del sistema nervoso, ma un’influenza costante dell’intestino su processi psico-neurologici come la motivazione, l’affetto e funzioni cognitive più alte.
L’intera funzione del GBA può essere modificata dal microbiota, ed è ciò che accade, per esempio, nel caso delle cellule intestinali che metabolizzano il triptofano, un neurotrasmettitore la cui carenza può condurre alla comparsa di una sindrome simil-depressiva; o ancora nella produzione di leptina e grelina, due enterormoni che controllano il senso di fame e sazietà, coinvolti nella patogenesi di alcuni Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA) come obesità o bulimia.
La flora intestinale – termine informale con cui è conosciuto il microbiota – è in grado di funzionare al meglio solo se le specie batteriche che cooperano tra loro sono presenti nelle giuste proporzioni. Nessuno fra questi microrganismi è in grado di svolgere azioni analoghe da solo o prevaricando sugli altri: un perfetto esempio di mutualismo biologico, come i pesci pagliaccio che abitano i tentacoli degli anemoni marini. Proprio perché le singole specie del microbiota non sono in grado di adempiere da sole alle funzioni preposte, all’insieme dei suoi genomi è stato assegnato il nome “collettivo” di microbioma, con l’intento di sottolineare l’unità genetico-funzionale dell’intero organo.
Alcune condizioni cui è sottoposto l’organismo – stress psico-fisico, modifiche della dieta, lunghi viaggi e soprattutto l’utilizzo di antibiotici ad ampio spettro – possono determinare un’alterazione quali-quantitativa della flora intestinale, nota come disbiosi intestinale. Questo squilibrio è coinvolto nella comparsa o slatentizzazione di patologie quali infiammazioni croniche intestinali, infezioni ricorrenti o predisposizione ad allergie.
La normalizzazione del microbiota può essere un valido strumento terapeutico per molte delle patologie citate. Gli strumenti farmacologici sono i probiotici e i prebiotici. I primi sono veri e propri batteri che, una volta ingeriti e superate le fisiologiche barriere digestive (in particolare lo stomaco e la sua estrema attività battericida), sono in grado di ricolonizzare intere porzioni intestinali. I prebiotici, invece, sono sostanze indigeribili dalle cellule intestinali ma utilizzate e metabolizzate esclusivamente da alcuni batteri, la cui crescita viene in tal modo favorita. Nonostante l’interesse ormai decennale della comunità medico-scientifica nei confronti di questo organo nell’organo, la sua precisa composizione resta ancora ignota. Per questo motivo l’utilizzo di probiotici e prebiotici non sempre è in grado di ristabilire la corretta proporzione tra specie batteriche e assicurare una efficacia terapeutica.
Da qui l’idea di trasferire una porzione di microbiota da un individuo sano a uno malato, operazione più comunemente nota come trapianto fecale. Ancora una volta ci si rivolge alla “colonia” del microbioma come a un vero organo, che è possibile trapiantare da un corpo a un altro (così come si farebbe con un rene, un fegato o un cuore). Ma a differenza di questi organi che appartengono al singolo individuo, il microbiota ha il vantaggio di non presentare problemi di rigetto, poiché è “ospite” tanto nel donatore quanto nel ricevente.
Tecnicamente si raccoglie un campione di feci del donatore e, attraverso la colonscopia o l’utilizzo di un sondino nasogastrico, lo si introduce nell’intestino del ricevente. Una seconda modalità, ancora poco sperimentata, prevede l’isolamento dei batteri da feci fresche (naturalmente con eliminazione delle scorie) ed il loro “impacchettamento” in una capsula gelatinosa. Una volta ingerita, la capsula si scioglie solo a livello dell’ileo, dove libera direttamente il suo contenuto.
L’utilizzo di antibiotici ad ampio spettro, quelli più comunemente diffusi, è causa di morte di alcune specie batteriche della microflora. L’assenza di tali microrganismi favorisce la proliferazione incontrollata di patogeni che possono causare malattia: il più temuto è il Clostridium Difficile, a causa della sua problematica eradicazione e della sua complicanza potenzialmente fatale – la colite pseudomembranosa. Al momento, questa patologia rappresenta l’unico caso in cui si dispone un paziente al trapianto fecale: in diversi studi sperimentali è stata dimostrata la superiorità del trapianto in termini di efficacia rispetto al trattamento antibiotico tradizionale (con tassi di risoluzione che passano dal 20% con terapia antibiotica al 90% dopo il trapianto).
L’attenzione verso questa tecnica per il trattamento di altre patologie è indubbiamente molto alta. Obesità, diabete, sindrome del colon irritabile o malattia di Chron potrebbero trovare beneficio da una semplice cambiamento del microbiota e, in effetti, per alcune il trapianto è già praticato in via sperimentale. Per un suo impiego su larga scala, sono ancora numerosi gli scogli (non solo simbolici) da superare: dalla conservazione delle feci alla loro sicurezza. Oltre ai virus dell’epatite C e B, si dovranno ricercare altri patogeni presenti nel donatore. Proprio la scelta del donatore rappresenta un elemento di dibattito: se le sue feci curassero il Chron e predisponessero al diabete? E quale sarà il rapporto con le case farmaceutiche? Osteggeranno una pratica che prevede un così scarso utilizzo di farmaci? Ci sarà da attendere ancora prima di sapere se queste “crapsules” riusciranno a farsi spazio nei protocolli terapeutici. Nel frattempo vale la pena gettare uno sguardo sulla vita complessa, infinitamente articolata, che si nasconde tra le pieghe del tratto digestivo umano.
*MARIA LAURA SANTOPAOLO
È specializzanda in Medicina Interna alla “Federico II” di Napoli. Coltiva da anni la passione per le Malattie Infettive e la Medicina Umanitaria. Non può fare a meno del mare ed ha una fobia per i social network.
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