di LUIGI PORTO
"Il cinema di finzione diventa sempre più di finzione, virtuale;
l'unico legame che ci rimane con il mondo come è,
che ci può aiutare a capire come sta diventando, è il documentario".
in occasione dell'uscita de Il Mondo Perduto].
Nel 2008 la Feltrinelli e la Cineteca di Bologna produssero Il Mondo Perduto, un progetto di riedizione dei dieci corti documentari che Vittorio De Seta girò negli anni Cinquanta, in versione restaurata e distribuito con un libro intervista all'autore. La Cineteca telefonò al regista, che viveva nella sua tenuta di Sellia Marina, proponendogli il progetto. Questi non ci pensò due volte, prese le vecchie pizze che conservava in frigorifero e partì alla volta di Bologna.
I ragazzi di Bologna lo accolsero come un monumento vivente e iniziarono a lavorare con lui nel processo di restauro e digitalizzazione. Dopo i primi passaggi, però, si resero conto che De Seta era lì non solo per conservare, ma anche per realizzare una versione director's cut e levarsi diversi sassolini dalle scarpe. Nelle prime proiezioni iniziò a chiedere di effettuare piccoli tagli e spostamenti, aggiustamenti che aveva in mente da un bel po’ di tempo.
Fino a chieder loro – mettendo a dura prova la loro etica – di rivolgersi a uno studio per effettuare un lavoro di ricostruzione sul suono. Giustamente, dei professionisti chiamati a conservare e che per anni hanno studiato e perfezionato il restauro non invasivo, non riuscivano facilmente ad accettare un’operazione che avrebbe pesantemente modificato l’assetto di opere che erano rimaste tali per mezzo secolo.
D’altronde, però, De Seta, vivo e vegeto, aveva ogni diritto sul suo lavoro e anche la capacità di svelare l’arcano: nonostante la grandissima percentuale di presa diretta, che per l'epoca era qualcosa di avveniristico, molti dei suoni furono ricreati sulla moviola della Fono Roma, avendo a disposizione un turno di tre ore per ogni lavoro, con risultati a volte inevitabilmente approssimativi.
Del resto, dopo la presa diretta è quasi sempre necessario ricreare o ampliare lo “sfondo”, il paesaggio sonoro, insieme a quei suoni che danno “peso” alle immagini, quelli che ad Hollywood costituiscono il foley e a Roma si chiamano rumori di sala.
De Seta montava il suono la sera stessa dopo ogni giorno di ripresa. La costruzione dell'opera iniziava così, “cieca”, come una composizione musicale realizzata incrociando i nastri dei Maihak Reportofon, i registratori più portatili in circolazione all'epoca.
Le immagini sarebbero venute in seguito, dopo lo sviluppo, montate sul ritmo del suono. Ci terrà in seguito a ripetere più volte, in molte interviste: «non ho mai amato la schiavitù del suono sincrono».
Su questa partitura concreta, dopo lo sviluppo, si montavano le immagini: il passo finale era in studio, ad incollare tutti i suoni che non c'erano, e che a volte assumevano un ruolo fondamentale.
[De Seta] con un montaggio audio-visivo che esalta il suono in funzione non gregaria, ci mostra cose che normalmente non si vedono, fenomeni dei quali non abbiamo coscienza (movimenti della natura, spostamenti di senso in oggetti familiari); isola significativamente minuti e diversamente impercettibili gesti dell'uomo, lascia che gli ambienti domestici, urbani e i paesaggi raccontino storie a sé, lavora sui suoni isolandone alcuni in primo piano per meglio scandire o per liberare la tensione narrativa.
Non è un ritmo arbitrario, ma una pulsazione presa direttamente in prestito dal referente reale, un ritmo che è rituale. Vittorio De Seta non forzava nulla, lasciava che il film pian piano “si montasse da solo” a partire da un mood umano e naturale che ha sentito e che ricostruisce la sera stessa. Il suono è la guida di ogni cosa, è sempre il responsabile dell'introduzione di nuovi elementi, come il carrello nella miniera in Surfarara (1955), che suona sempre in anticipo sulle immagini.
Quel mondo era ancora ben presente, ben ramificato nella memoria sonora dell'autore, un vero maestro di quella competenza sonologica che rappresenta il paradigma del pensiero del Murray Schafer più cognitivista. I ricordi del regista erano molto più lucidi e dettagliati rispetto ai samples incollati sul supporto ottico, e non si fece sfuggire la possibilità di una revisione tutta nella direzione della realtà. Era l'ultima occasione per immortalare un'immagine sonora di un'epoca nei suoi dettagli, prima che essa sparisse per sempre insieme con i suoi testimoni. Così venne a Roma ad effettuare un'operazione che era più elevata di un pur nobile restauro: o meglio, se era un restauro lo era nel senso semantico, perché andava ad intervenire sull’elemento stesso di indexicalità del segno sonoro potenziando il documento stesso in quanto tale. Ridare vita al supporto in sé sarebbe stata ben poca cosa rispetto al ridare respiro all’urgenza comunicativa di chi ha a cuore la pura testimonianza. Invece, arricchire le “tracce” realizzando icone, oggetti ricalcati, per gli obiettivi che si pone un cinema che ha un referente così forte, è un'operazione necessaria e di valore. Ogni remora etica sul restauro non conservativo cadeva di fronte a un autore vivente che ricordava perfettamente come erano andate le cose, e sapeva come potevano suonare con i mezzi della post-produzione moderna.
A Roma, De Seta si rivolse a Stefano Di Fiore, per il quale io lavoravo da assistente alla Movie Sound Editor. Ricordo a questo proposito, una mezza giornata che passammo a cercare di ricreare un particolare “richiamo” di due pescherecci che si incrociano nella silenziosa mattina mediterranea, oppure l’insistenza dell’anziano regista sul suono, per cinquant’anni assente eppure importantissimo, delle code dei tonni che sbattono sul ponte della barca. O ancora il lunghissimo silenzio “pneumatico” che nel documentario Lu tempu di lu pisci spata (1954) precede il guizzo lontano della preda e l’urlo della vedetta: un urlo che dà il via ad una tempesta di remi e richiami assolutamente da brividi, e continua con la sua formula reiterata, fino a diventare un canto inserito in un contesto mitologico.
La caccia al pesce spada è condotta come le rappresentazioni fenicie dei quattro vogatori, il piccolo albero per la vedetta e il timoniere a prua.
Ricreammo in sala la pacca umida e sorda dei pesci che si dibattevano, e trovammo il respiro giusto da dare al silenzio della vedetta in attesa del pesce spada. Non riuscimmo però ad essere credibili in alcuni casi, come nell'episodio della tromba dei pescherecci: non riuscii a comprendere ciò che il regista voleva. Il suono lui lo ricordava benissimo – “è come un saluto lontano e rispettoso” continuava a dire – ma per qualche motivo non lo trovammo, forse la tonalità, il timbro, la distanza tra le due sirene, qualcosa non andava, qualcosa non era aderente all'immagine mnemonica. E qui come in altri casi, piuttosto che “mentire” o restituire un documento approssimativo, l'autore decise di lasciar perdere, con la frase che snocciolava ogni volta che non era contento del risultato: «Ma sì, se è rimasto per cinquant'anni così, vuol dire che sta bene». Nessun compromesso in assenza del reale. E un esercizio di autopersuasione che nasconde l'urgenza comunicativa che si fa insicurezza, ossessione: si è qui riusciti a dire, a tramandare, a riportare? Sono passati cinquant'anni. Se è rimasto così, vuol dire che sta bene. Non voleva essere mai contemplativo, mai estetizzante, viceversa sempre partecipe. La sua etica e la sua estetica coincidevano.
Il terzo giorno di montaggio mi sembrò di riconoscere, nel canto che introduceva Isole di Fuoco (1954), una registrazione tratta dall’archivio Carpitella. Chiesi a De Seta se ricordavo bene, e lui rispose che si trattava di una sua personale registrazione, che aveva dato poi a Carpitella di passaggio sul set del documentario nel suo storico grand tour con Alan Lomax. Una contingenza fortuita in un momento storico importante per la ricerca etnologica: certo per il Sud Italia quell’anno fu, a dirla con Lessing, ricco di istanti privilegiati. Ciò che è rimasto nell’immaginario dei fruitori di tali testimonianze si è sedimentato ovviamente – questo il rischio principale dell’archiviazione audiovisiva, e al contempo la sua peculiarità – fino a rappresentare l’oggetto stesso.1 Da una parte, per il documentarista e l’archivista, esiste la necessità di rappresentare il tipo, quindi riuscire ad immortalare un evento che sia il più possibile nella norma rispetto alla sua tradizione, o alla tradizione della sua famiglia di eventi; dall’altra, la contingenza è inevitabile, e il momento viene impresso per sempre, con tutta la sua casualità e le sue mille unicità.
Il destino paradossale del tempo cinematografico è d'essere insieme l'irrevocabile cattura dell'istante (o, come è stato detto giustamente, l'instancabile iscrizione della morte nel vivente) e la perdita di questa cattura, il disconoscimento di ogni termine fisso, la spinta senza inizio né fine del passaggio, la metamorfosi delle fasi.2
Il climax del lavoro fu Parabola d'oro (1955). Nel foglietto di appunti sul suono che il regista stilò durante la prima proiezione collettiva c'era scritto: «È il documentario più delicato. Bisogna trovare l'equilibrio tra suoni pesanti e suoni sottili». Fu quello su cui impiegammo più tempo ed energie. Il suono di Parabola d'Oro è una vera e propria partitura concreta, che mancava, però, di elementi ritmici importantissimi. Fu tra l'altro l'unico caso in cui l'autore chiese espressamente più sync.
Questa “partitura” è divisa in episodi musicalmente molto definiti. Vale la pena soffermarsi ad analizzarla.
La prima parte ha come pedale il lento trasformarsi del suono delle cicale, che scandiscono le varie fasi della giornata lavorativa nel campo. Come nel Sacre du Printemps di Stravinskij, inizia una voce, il canto, ad esporre un tema nervoso, insistente, cangiante: il suono stridulo e sordo delle cicale che entrano quasi subito è contrappuntato da altri suoni su frequenze simili, i fruscii delle spighe al vento, i colpi del falcetto. Ecco arrivare, come un'incursione di legni, gli uccelli; ecco che il canto si calma, finisce la sua esposizione, ed entrano in scena i cavalli, i loro soffi, zoccoli e code. Fino al pieno d'orchestra, la corsa in cerchio dei cavalli sul grano, spighe calpestate, nuove cicale più intense, lo schioccare della frusta e le urla di incitamento, assolutamente “modali”. De Seta fu attento a porre in campo distante (allunati usava dire, usando un vecchio termine gergale) le altre urla, gli altri cerchi, così da creare un punto di vista privilegiato su una parte di un tutto, su un pattern.
Dopo questa ouverture, la prima pausa, l'“adagio” introdotto dai grilli, più dolci delle cicale, meno taglienti, che cantano in un relativo, esausto silenzio, spezzato dai rumori d'acqua dei contadini che si dissetano, dalle voci più distese, non più musicali, vagabonde, sporadiche. È il riposo del lavoratore.
Interrotto, allo scoccare dei cinque minuti, dal vento che muove i filari, a risvegliare i braccianti. La risposta è il rumore delle pale che spalano i grani e i setacci – sciamanici, tribali – che in un leggero crescendo creano il nuovo pattern, la nuova danza.
Dura un po', non moltissimo. Poi la cesura viene scandita dal suono di una singola pala, secco e deciso, che compatta il covone – un punto. Fine giornata lavorativa.
Almeno per gli uomini, che formano la lunga coda del ritorno a casa, tra il battere degli zoccoli su terra e pietra, e il festaiolo intona di nuovo il canto iniziale (esposizione finale del tema, recap) all'imbrunire. Ma delle campane lontane, provenienti dal paese, richiamano a casa gli uomini e le donne e annunciano invece l'ingresso di un nuovo suono, quello moderno della trebbia a motore: la nostra sinfonia non è finita, il futuro che si affaccia alla porta la sta continuando, esso produce un suono drammaticamente diverso da tutto ciò che si è sentito finora. Un suono che preconizza un cambiamento radicale, che di lì a pochi anni avrebbe cancellato tutto quel mondo di rituali, tutto quel secolare tramandarsi di movimenti, per dar spazio al progresso.
L'ultimo tocco è affidato ancora alle campane, alle quali rispondono i cani, ululando alla luna. La soddisfazione dell'anziano autore per il lavoro svolto fu, almeno in questo caso, totale. «Finalmente, dopo cinquant'anni, questo documentario suona come deve suonare» disse. La danza della raccolta del grano era completa, il ricordo di un soundscape era stato immortalato.
1. Ad esempio, una filastrocca infantile incisa da Carpitella prevede, nella “conta” del gioco, che uno dei partecipanti venga nominato. Il bambino della registrazione veniva chiamato “Franciscu Pirtusu”. Questo nome è entrato di diritto nel testo della filastrocca quando essa viene riportata.
2. Jean-Louis Comolli, “In Calabria de Vittorio De Seta” catalogo del festival Cinéma du Réel, Parigi, marzo 1994. Traduzione dal francese di Giorgio Longo.
*LUIGI PORTO
Montatore del suono per il cinema e compositore con una produzione che spazia tra avanguardia e popular music, vive e lavora a New York. Ha pubblicato album e lavori di sound art a suo nome e con diversi pseudonimi.
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