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Fioriture per tempi diversi. La vegetariana di Han Kang e le metamorfosi vegetali

di DIEGO FERRANTE



Zetaesse, Han Kang e le metamorfosi vegetali di Diego Ferrante, fotografia di Wolfgang Tillmans, "Plant Life"
© Wolfgang Tillmans, "Plant life" (2005)

Un giorno di febbraio il signor Cheong si sveglia alle quattro del mattino, ma al suo fianco la moglie non c'è. La trova accovacciata in cucina con indosso solo la camicia da notte. “Ho fatto un sogno”, sussurra. Da quel momento le cose prendono un nuovo corso. La mattina seguente Yeong-hye è ancora lì con i capelli scompigliati, intenta a svuotare frigorifero e congelatore: carne, latte, uova, tutto finisce nella spazzatura.

“Tutt’intorno a lei, il pavimento della cucina era ricoperto di sacchetti di plastica e contenitori a chiusura ermetica, sparpagliati dappertutto: non c’era un solo centimetro libero dove mettere i piedi senza calpestarli. Carne di manzo per lo shabu shabu, pancia di maiale, due stinchi di bue nero, calamari sottovuoto, anguilla affettata che mia suocera ci aveva mandato secoli prima dalla campagna, ombrine essiccate legate con dello spago giallo, confezioni ancora chiuse di ravioli e un numero infinito di pacchetti pieni di chissà che cosa ripescati dalle profondità del frigo. Si sentiva un fruscio: mia moglie stava mettendo le cose attorno a sé, una alla volta, dentro sacchi della spazzatura neri. Alla fine persi le staffe.”

Han Kang pubblica La vegetariana nel 2007, ma sarà dal 2015 – in concomitanza con la traduzione in lingua inglese – che il romanzo otterrà ampia diffusione e riconoscimenti. La storia si compone di tre parti (“La vegetariana”; “La macchia mongolica”; “Fiamme verdi”) che accompagnano le vicende di Yeong-hye in una graduale di metamorfosi fatta di rinunce e silenzi, che traducono ora la sofferenza, ora la risolutezza della sua decisione.

Il sogno da cui tutto ha inizio è un sogno cupo: Yeong-hye vaga in una foresta fino a smarrirsi, trova riparo in un granaio, ma qui pendono enormi quarti di carne ancora grondanti sangue. Cerca di scappare ma non c’è via d’uscita. Quando torna all’aperto le sue mani e i vestiti sono intrisi di sangue e in bocca mastica una massa cruda e rossa che preme contro le gengive e il palato.

Quelle immagini si trasformano in un appello sempre più pressante, impossibile da ignorare. Come se qualcosa si fosse conficcato nel petto: “Le vite degli animali che ho divorato si sono tutte piantate lì”. Con la carne si mescolano collera e percosse subite da bambina, il conformarsi alle aspettative famigliari, persino il ricordo del cane che, dopo averla morsa, fu costretta a mangiare. Yeong-hye ha assorbito tutto quel dolore, “Non potevo lasciare quella roba nel frigo. Non la sopportavo più”.

Yong-hye mangia sempre meno e diventa ogni giorno più magra, gli zigomi più sporgenti, la carnagione più pallida. Il solo momento di tregua dai sogni arriva quando il cognato, un videoartista ossessionato dalla macchia mongolica che conserva sulla natica sinistra, dipinge il suo corpo con piante e fiori. In quella macchia minuscola simile a un livido il cognato riconosce “qualcosa di antico, qualcosa di pre-evoluzionistico, o forse una traccia di fotosintesi”, ed è come se le sue parole individuassero nella vita di Yeong-hye un’affinità e un destino toccatole da sempre in sorte.

La parte conclusiva del romanzo si concentra su In-hye mentre si prende cura della sorella minore. Sono passati tre anni e Yeong-hye è ricoverata in un ospedale psichiatrico dove le è stata diagnosticata un’anoressia nervosa. Il suo peso è sceso sotto i trenta chili e trascorre il tempo imitando gli alberi in una verticale perfetta: i capelli lunghi e folti, le mani piantate come radici nel terreno. Sembra che voglia lasciarsi morire. Eppure la sua non è una rinuncia alla vita ma alla vita umana e animale per rimanere dritta e immobile tra gli alberi, ricusando un mondo di violenza e sopraffazione.

Ogni tentativo di alimentazione si rivela vano, Yeong-hye contrae l’esofago rendendo impossibile le cure. Le sue viscere si sono atrofizzate ed è a quel punto che confida alla sorella quello che per lei è un segreto dolce. Non è più un animale, non ha bisogno di mangiare, ha bisogno soltanto di acqua. E quando la sorella le chiede se abbia mai visto una pianta parlare, Yeong-hye le risponde con un sorriso enigmatico, “Le parole e i pensieri presto spariranno tutti”.

In-hye non sa interpretare i comportamenti della sorella minore, ma standole accanto arriva a comprenderne lo stato d’animo. Nel corso della vita ha sperimentato anche lei lo stesso malessere. “Forse, a un certo punto, Yeong-hye ha semplicemente lasciato cadere l’esile filo che la teneva legata alla vita di ogni giorno.”

“In-hye richiama alla mente l’immagine della sorella ritta sulle mani. Aveva scambiato il pavimento di cemento dell’ospedale per la soffice terra dei boschi? Il suo corpo si era trasformato in un tronco robusto, con bianche radici che le spuntavano dalle mani e si ancoravano al suolo nero? Le sue gambe si erano allungate in alto, verso il cielo, mentre le braccia si spingevano fino al nucleo stesso della Terra, con la schiena rigida e tesa a sostenere quella duplice crescita? Mentre i raggi del sole le bagnavano il corpo, l’acqua che impregnava il suolo era stata assorbita dalle sue cellule, per poi farle sbocciare dei fiori tra le gambe? Quando Yeong-hye si era tenuta in equilibrio a testa in giù allungando ogni fibra del suo corpo, erano queste le cose che si erano risvegliate nella sua anima?”

Han Kang ha affermato in più occasioni che il personaggio di Yeong-hye trae ispirazione da un verso di Yi Sang, un poeta coreano dell'inizio del XX secolo, che cercò nella poesia una via d’uscita dalla violenza coloniale giapponese, "Credo che gli esseri umani dovrebbero diventare piante". È questa forse la chiave della trasformazione di Yeong-hye, una protesta silenziosa, e insieme una resa, di fronte alla sofferenza.


Zetaesse, Han Kang e le metamorfosi vegetali di Diego Ferrante, fotografia di Wolfgang Tillmans, "Mexican non-GM corn plant (day)"
© Wolfgang Tillmans, "Mexican non-GM corn plant (day)" (2009)

1.

La tradizione letteraria occidentale ha raccontato in più occasioni la trasformazione di esseri umani in alberi o fiori – soprattutto nella mitologia classica per effetto soprannaturale o divino. Le metamorfosi di Ovidio ospitano alcune di queste storie a partire dal caso forse più noto di dendromorfosi, il mito di Dafne. Dopo aver sconfitto il serpente Pitone che custodiva l’Oracolo di Delfi, Apollo schernisce Cupido affermando che l’arco non è un’arma adatta alle sue spalle. Per punirlo della sfrontatezza, Cupido estrae dalla faretra due frecce di potere opposto con cui colpire Febo e Dafne: la prima susciterà amore, mentre la seconda lo scaccerà. Trafitto fino al midollo e innamoratosi all’istante, Apollo insegue Dafne senza darle tregua. Lei, oramai senza più forze, implora le correnti del padre, il fiume Peneo, di mutare le sue sembianze prima che il dio la violenti. Ed ecco che si trasforma in alloro.

“Ancora prega, che un torpore profondo pervade le sue membra,

il petto morbido si fascia di fibre sottili,

i capelli si allungano in fronde, le braccia in rami;

i piedi, così veloci un tempo, s'inchiodano in pigre radici,

il volto svanisce in una chioma: solo il suo splendore conserva.

Anche così Febo l'ama e, poggiata la mano sul tronco,

sente ancora trepidare il petto sotto quella nuova corteccia

e, stringendo fra le braccia i suoi rami come un corpo,

ne bacia il legno, ma quello ai suoi baci ancora si sottrae.”

Nel X libro Ovidio racconta un’altra metamorfosi vegetale, ripresa in seguito da Alfieri. Mirra, corteggiata da innumerevoli pretendenti, custodisce dentro di sé un amore incestuoso che la tormenta. Travolta dal senso di colpa, tenta di togliersi la vita, ma è salvata dall’anziana nutrice. Dopo aver raccolto con sgomento la sua confessione, questa le promette di aiutarla, purché rinunci ai suoi propositi di morte. La vecchia accompagna di notte fonda la figlia al letto del padre, ma dopo numerosi incontri Cinira, ansioso di vedere il volto dell’amante, illumina con la lanterna la donna, e vi riconosce la figlia. Mirra, incinta del padre, inizia una lunga fuga giungendo infine nella regione di Saba. Qui, sfinita, prega gli dèi di punirla per le sue colpe.

“Mentre ancora parla,

la terra le avvolge le gambe, si fendono le unghie dei piedi,

e si diramano in radici contorte…

le ossa si mutano in legno, il sangue in linfa,

in grandi rami le braccia,

in ramoscelli le dita, in dura corteccia la pelle.

La pianta crescendo fascia il ventre,

sommerge il petto e quasi copre il collo:

intollerante di indugi, lei si china incontro

al legno che sale e le avvolge il volto.

Ma pur perduta col corpo la sensibilità di un tempo,

non si ferma il pianto e dalla pianta trasudano tiepide gocce.”

Intorno alle metamorfosi di Dafne e Mirra si raggruppano la trasformazione di Siringa (inseguita da Pan) e Lotide, la disperazione di Clizia e Ciparisso o ancora il dolore di Driope. Ognuna di queste trasformazioni risponde al tentativo di sfuggire a una minaccia o a un dolore troppo grande da fronteggiare. Le radici proteggono. Nascondono. Riparano.



2.

Tutte le mitologie sono piene di metamorfosi che permettono di risolvere un conflitto o evitare situazioni di pericolo. In altri casi la trasformazione indica una punizione per un misfatto. In altri ancora è una ricompensa. Di rado sono reversibili. Nondimeno i mutamenti di forma non intaccano la natura del soggetto, che generalmente conserva il nome, la memoria, l’indole. Questa continuità si esplicita in alcuni parallelismi topologici o strutturali, nel caso di Dafne e Mirra si pensi al rapporto tra i piedi e le radici, i capelli e le fronde o tra gli arti superiori e i rami.

La trasformazione metamorfica nei miti arcaici presenta numerosi punti di contatto con quella naturale. Tanto in ambito scientifico quanto in quello letterario, la metamorfosi comporta una trasfigurazione che trattiene in sé le tracce o un legame con ciò che l’ha preceduta. Come scrive Valeria Maggiore nelle sue riflessioni tra letteratura, filosofia e biologia “anche in ambito biologico […] la conditio sine qua non per parlare di un cambiamento autenticamente metamorfico è la permanenza di qualcosa d’identico in successivi stadi trasformativi: la forma non si modifica nella sua totalità, ma s’instaura un equilibrio fra ciò che inalterato soggiace alla trasformazione e ciò che invece si trasforma.”

In La metamorfosi delle piante del 1790, già Goethe affermava che dallo studio delle foglie si possono ottenere informazioni sui processi alla base della crescita e dello sviluppo delle piante e che i loro membri morfologici (radice, fusto, foglia) condividono un’origine comune. Nella visione goethiana della natura la varietà del mondo vegetale è il risultato sempre mutevole della sua adattabilità all’ambiente. Al tempo stesso, nei fenomeni di metamorfosi non sono solo gli influssi esterni a esercitare una pressione sull’organismo, ma sussistono motivi e forze interne che si manifestano ora in una forma, ora in un’altra. In questo gioco di mutazioni che imbroglia omologie e mutamenti, cosa varia e cosa resta inalterato? E cosa accade quando il ciclo di trasformazioni si interrompe e la metamorfosi si traduce in una forma che, anziché rigenerare, paralizza?



3.

Il XIII canto dell’Inferno offre un’immagine che ben chiarisce questo permanere nel mutamento e lo stallo che talvolta una trasformazione può comportare. Siamo nel VII cerchio dove si puniscono le anime dei suicidi e Dante si incammina con Virgilio per un bosco dal fogliame scuro, i cui rami sono avvolti da spine. Da ogni parte si levano lamenti, ma il poeta non vede nessuno. Virgilio, colta la sua confusione, lo invita a spezzare un ramoscello e il suo tronco gridò: «Perché mi spezzi?». La voce è quella di Pier delle Vigne, stretto consigliere di Federico II: travolto da invidia e accuse infondate di tradimento, si tolse la vita per sfuggire al disonore. È Virgilio a domandare in che modo l’anima del suicida si lega agli alberi della selva:


“Allor soffiò il tronco forte, e poi

si convertì quel vento in cotal voce:

«Brievemente sarà risposto a voi.


Quando si parte l’anima feroce

dal corpo ond’ella stessa s’è disvelta,

Minòs la manda a la settima foce.


Cade in la selva, e non l’è parte scelta;

ma là dove fortuna la balestra,

quivi germoglia come gran di spelta


Surge in vermena e in pianta silvestra:

l’Arpie, pascendo poi de le sue foglie,

fanno dolore, e al dolor fenestra.”


Il giorno del Giudizio Universale, spiega ancora il dannato, essi andranno a riprendere le loro spoglie ma non per rivestirsene. Trascineranno i corpi nella selva, dove ciascuna anima appenderà il proprio all'albero dove è imprigionata ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie. La trasformazione in pianta silvestra non salva ciò che è stato, ma stabilisce forse un punto definitivo tra resistenza e resa alla cognizione che il passato non può essere revocato.


Zetaesse, Han Kang e le metamorfosi vegetali di Diego Ferrante, fotografia di Wolfgang Tillmans, "Vapeur"
© Wolfgang Tillmans, “Vapeur” (2017)

4.

Negli esempi letterari che abbiamo visto, ogni metamorfosi è la reazione a un sentimento di perdita che atterrisce e resta al di là della nostra capacità di intervento. Dafne prega che il fiume dissolva le sue fattezze, Mirra è combattuta tra il timore della morte e il disgusto della vita, mentre Yeong-hye aspetta che rami e fiori l’aiutino a fare silenzio intorno a lei. Queste metamorfosi permettono al soggetto di continuare a esistere, ma la sola possibilità di sopravvivere è diventare radici, corteccia. Vale a dire pietrificarsi. In un saggio dedicato al mito metamorfico Rosalba Galvagno si sofferma proprio su questo stato di sospensione, mostrando come la metamorfosi non sia soltanto un’anomalia magica o fantastica, ma una figura del limite:

“[La metamorfosi] può costituire, infatti, l’esito eventuale di un destino che, a differenza di quello tragico votato alla bella morte, è segnato piuttosto da quell’entre-deux, da quel limen tra la vita e la morte, da quella zona estrema, da quell’ultimo rifugio che un essere caduto può ancora abitare. L’eroe metamorfico viene infatti punito con una mutazione ma al tempo stesso salvato dalla morte o da una sofferenza divenuta intollerabile.”

Contrariamente a una tradizione interpretativa che considera la metamorfosi una figura del movimento e della rigenerazione, ciò che prevale è la sua capacità di immobilizzare il soggetto in una condizione di stallo in cui ciò che è accaduto nel passato accerchia e tormenta. Se nel processo di vegetalizzazione di Yong-hye il desiderio di trasformarsi in un albero nasce dalla convinzione che le radici possano rimarginare ferite e pensieri, dovremmo forse concepire con Lacan il dolore come un campo che si apre precisamente dal limite in cui non c’è possibilità per l’essere di muoversi.

Quando Yeong-hye rifiuta ogni forma di cibo per cercare con le mani l’acqua nel terreno si chiude in una spinta autoconservativa che la inchioda tra la vita e la morte. Il soggetto o l’eroe metamorfico punta a pietrificare la realtà, ma nel suo tentativo di protezione paralizza la sua esistenza. La vita che ha paura della vita, che fugge dalla vita, che si difende dalla vita, perché, come scrive Domitilla Pirro nella sua intervista con Han Kang, “La vegetariana è, tra le altre cose, il racconto umano di come ci si protegge da un’invasione; di come, spesso invano, si prova a respingerla”.



5.

In Aspettando Godot la scena è del tutto sgombra se non per un salice dai rami spogli. Per Vladimiro ed Estragone l’albero è un diversivo nella conversazione, un riparo, un nascondiglio maldestro, ma prima di tutto il luogo d’appuntamento con Godot. Angosciati dall’attesa, i due pensano di impiccarsi ai suoi rami, ma desistono per mancanza di una corda e per paura che ceda.“Tutto è morto, tranne l’albero”, dice Vladimiro. Ugualmente la nuova natura arborea di Dafne, Mirra o di Yeong-hye segnala uno stato di sospensione: si trasformano in albero sotto la pressione di un dolore a cui non possono più sfuggire. Le radici le bloccano al terreno, impedendo qualsiasi movimento o progresso. Ma nel mondo vegetale le radici non sono solo un punto di ancoraggio al suolo. La vita degli alberi è estranea a questo quadro di isolamento e solitudine. La biologia vegetale, infatti, mostra che le piante non sono entità completamente indipendenti, ma vivono in una rete complessa di segnali elettrici e chimici che si trasmettono proprio attraverso le radici.

Le piante rilasciano nel suolo tra l’11 e il 40% di tutti gli zuccheri prodotti attraverso la fotosintesi e prima di rilasciarli trasformano alcuni di questi in composti complessi che essudano nella zona che circonda le radici. In questo strato, la rizosfera, vivono una vasta varietà di batteri, attinomiceti, funghi, protozoi e altri microrganismi, che sono in grado di influenzare le proprietà del suolo – come il pH del terreno, la disponibilità di ossigeno, anidride carbonica e acqua –, e di conseguenza lo sviluppo della pianta.

La comunicazione incessante tra radici e rizosfera permette non solo una simbiosi mutualistica con il suolo e la sua flora microbica, ma una vera e propria comunicazione tra le diverse piante. Ciò appare evidente quando, in presenza di un’infestazione di parassiti o altri agenti patogeni, anche alberi lontani, non interessati dall’invasione, incrementano le loro difese. È come se il sistema ramificato del terreno permettesse la trasmissione di un segnale d’allarme che si diffonde lungo la foresta. La rizosfera si trova al di fuori della pianta, ma ne conserva la memoria e fa sì che diventi una risorsa comune.

È questa forse la chiave di disinnesco del lutto che la metamorfosi rappresenta. Riconoscere la memoria non solo come un archivio o come il ritorno infestante di un passato traumatico. Imparare a usarla per creare un orizzonte di avvenire. Come un albero, dimenticare la distinzione tra le radici e il terreno in cui affondiamo, perché i ricordi e la memoria non sono una facoltà individuale, ma un'esperienza che si fa con l’altro: “e ciò che non sappiamo, anch’esso ci accomuna”.




Zetaesse, Han Kang e le metamorfosi vegetali di Diego Ferrante, fotografia di Wolfgang Tillmans, "Anders behind leaves"
© Wolfgang Tillmans, "Anders behind leaves" (2010)

Il nostro numero tematico sulle #radici è ricco di ramificazioni e connessioni sotterranee. Alessandra La Marca presenterà il suo erbario dell'estirpazione che raccoglie specie di piante sottoposte a un processo crescente di esportazione e sfruttamento fino a causare gravi danni ambientali e sociali. Nella nostra gallery Andreina Argiolas ci guiderà tra i suoi libri d’artista realizzati in carta riciclata, una “foresta da sfogliare”.

Davide Saponaro analizzerà il sistema delle radici consonantiche della lingua ebraica, dai versi del profeta Oseo, alle testimonianze presenti nella Bibbia, dai Salmi al Mishnà. Carla di Feo ci inviterà a giocare con l'errore nei suoi disegni a quattro mani. Alessia Capasso esaminerà suoli contaminati da fertilizzanti chimici e insetticidi, per ragionare sulle dinamiche politiche attuali e le difficoltà che pongono per una svolta agricola. Eda Özbakay ci condurrà nelle composizioni di Schoenberg e Ashley, esplorando triadi e dodecafonia. La sezione fotografica vedrà i notturni di Alessandra Mascarucci, alla ricerca di un terreno che modifichi il nostro rapporto abituale con il mondo.

Questi sono alcuni dei contributi che ci attendono. Noi saremo pronti a veder germogliare questo sistema vivente, intessuto da sistemi complessi e linguaggi innovativi, sempre alla ricerca di nuove vie di nutrimento e crescita.





*DIEGO FERRANTE

Scrive di filosofia, cinema e teoria critica. Ha curato la traduzione dall’inglese di vari testi di Ernesto Laclau e Chantal Mouffe; collabora con il portale online di Micromega Il rasoio di Occam. Si nutre di letture, di arte e foglie di tè. Talvolta ne legge il fondo. È tra i fondatori di zetaesse. Non sa far nodi, non sa scioglierli.

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