di EDA ÖZBAKAY
Nella musica, è la distanza a formare l’armonia della dialettica tra i suoni. Quando due o più suoni si incontrano, contemporaneamente o in successione, il nostro orecchio percepisce la tensione creata da questo incontro come armonia musicale. Un’armonia non necessariamente di facile interpretazione, poiché, proprio come le relazioni umane, questi incontri tra suoni possono risultare piacevoli, armonici, culturalmente accettati oppure in evoluzione, ma anche dissonanti, instabili, complicati, inusuali o di breve durata. Tutto dipende dalla distanza con la quale un suono si rapporta all’altro e dal giudizio che l’ascoltatore emette a riguardo. Ma come si giudica la qualità di una distanza? Misurandola e dandole un nome: intervallo.
I primi studi del rapporto tra note musicali furono effettuati da Pitagora. Il matematico greco utilizzò il monocordo, uno strumento a corda unica, per rendere visibile e misurabile la distanza tra i suoni. Facendo vibrare la corda, Pitagora la suddivise in intervalli, ricavati dalle relazioni geometriche della sua lunghezza. Quindi, mise in rapporto le varie distanze tra i suoni, individuando le distanze intrinseche all'armonia grazie alle leggi della matematica. Così le note “suonavano bene”, erano in sintonia con l’orecchio dell’ascoltatore, percepite come armonici e consonanti. L’ascoltatore, in un certo senso, aveva la giusta distanza emotiva con quei suoni, “risuonavano” in lui.
Gli intervalli individuati da Pitagora avevano la giusta distanza per rientrare nei canoni di armonia musicale di quel periodo e di quell’area geografica, e furono da lui codificati in una scala. All’epoca coesistevano scale musicali diverse, ritenute perfettamente naturali, in cui le distanze tra suoni avevano rapporti diversi, che potevano essere usati per esprimere diversi linguaggi musicali.
Tutte le distanze tra suoni e le conseguenti relazioni venivano rapportate alle proporzioni delle loro oscillazioni. La semplicità di questa proporzione era il criterio per la valutazione della loro distanza e per il grado della loro consonanza. L’ottava, che si compone di una proporzione 1:2, risultava consonante, armonica, così come la quinta (2:3) e la quarta (3:4). È questo principio di consonanza che definisce il valore dell’intervallo. Esistono molteplici sistemi di classificazioni musicali, come il sistema pitagorico, la divisione armonica dell’ottava, la divisione temperata, ma la base di tutti questi sistemi è la relazione della distanza dei suoni. Ci si rapporta con le distanze tra suoni anche nel caso di intervalli non afferrabili per via di calcolo, come gli intervalli microtonali o intervalli non stabili, che oscillano tra varie altezze di suono. Ma anche queste oscillazioni seguono sempre un proprio principio intrinseco di armonia della relazione delle loro distanze.
Le possibilità di definire le distanze tra suoni e di abbinare quelle distanze tra di loro sono infinite e dipendono dai gusti del compositore e dalle leggi musicali vigenti. Tra fine dell`800 e gli inizi del 900, ad esempio, i gusti musicali si svilupparono verso la cosiddetta “emancipazione della dissonanza”. Nelle composizioni dell’epoca, come per esempio nel sistema dodecafonico di Arnold Schönberg, era comune introdurre delle note estranee alla tonalità dell’opera. Quelle note, combinate in maniera tale da creare delle distanze dissonanti, scomode da ascoltare, obbligarono l’ascoltatore a rapportarsi con le tensioni provocate da distanze non armoniche, non “vicine” ai canoni estetici in vigore. La nuova distanza tra queste note metteva in questione la distanza che noi sentivamo verso quegli intervalli. In che modo ci si poteva relazionare con quella musica? Qual era la distanza d’ascolto giusta?
Con alcuni intervalli abbiamo un rapporto particolare per l’utilizzo che se ne fa. Tutti sappiamo riconoscere un intervallo di quarta, usata per il suono delle sirene dei veicoli delle forze dell’ordine. Altri li conosciamo per l’associazione con un brano famoso, come la seconda minore, ripetuta all’inizio di “Per Elisa” di Beethoven. Le prime note di “Over the rainbow” del “Mago di Oz” ci trascinano fino in alto, a un’ottava perfetta. Ma anche intervalli meno immediati, come per esempio la settima diminuita, diventano cantabili da chiunque, se ricordati servendosi di un brano familiare, come nel caso di “The winner takes it all” degli ABBA.
Si è detto che con alcuni intervalli risulta difficile relazionarsi. Uno degli intervalli da sempre ritenuto molto instabile nella musica europea è il tritono. Il tritono è un intervallo di quarta aumentata o quinta diminuita. È un intervallo che crea molti problemi a livello armonico e risulta molto dissonante all’orecchio, ragion per la quale nel Medioevo fu chiamato diabolus in musica. Data la sua natura sgradevole, se ne evitava l’utilizzo, oppure lo si utilizzava per esprimere qualcosa di oscuro, doloroso o demonico. Ma è proprio questo suo lato tenebroso e scomodo che risulta essere estremamente provocante. È come se si creasse una tensione che bisogna necessariamente sciogliere, una distanza che attrae perché esige una soluzione. Il tritono fu molto usato nel Jazz e nel Blues, lo troviamo nel famoso brano “Maria” nella West Side Story di Bernstein, persino nella sigla dei Simpson, e ogni volta la sua percezione cambia in base alla distanza emotiva e culturale con la quale lo ascoltiamo.
Franz Liszt, nel 1849, si avvalse del tritono nella sua “Dante Sonata” (Après une lecture du Dante: Fantasia quasi Sonata). L’opera è ispirata alla Divina Commedia, e inizia con il lamento delle anime all’inferno. Per evocare l’immaginario infernale, Liszt introduce il primo movimento con un tritono su ottave discendenti, che ci guidano minacciosamente verso l’oscurità, con un andante maestoso.
Ci aiutano a immaginare l’ingresso degli inferi anche il titolo e la tonalità dell’opera (re minore), ma è principalmente il carattere, la personalità del tritono che ci fa percepire l’angoscia che Franz Liszt vuole suscitare in noi. È un intervallo con un carattere lontano dalla nostra armonia interiore, è sconosciuto e quindi temibile.
Anche il brano “Purple Haze” (1967) di Jimi Hendrix inizia con un tritono, che viene ripetuto dal basso durante il primo riff di chitarra e poi ripreso nell'assolo, come se fosse il punto di riferimento del brano.
Quali associazioni evoca il tritono in questo contesto? Jimi Hendrix dichiarò che il brano fu ispirato da un sogno, in cui, camminando sul fondo del mare, fu salvato dall’annegamento da Gesù (tant'è che il titolo del brano in un primo momento fu “Purple Haze, Jesus Saves”). Si tratta quindi di una visione onirica, quasi psichedelica, ma non cupa e angosciante come nella Sonata di Dante. Eppure, si percepisce una distorsione emotiva non equilibrata, un` irrequietezza musicale che oscilla. Pur essendo inserito in un contesto musicale meno minaccioso rispetto all’opera di Liszt, il tritono mantiene il suo carattere, la sua personalità. È una personalità intrinseca alla distanza, la cui percezione segue il principio di pregnanza uditiva in cerca di una collocazione culturale, psicologica, emotiva.
Il musicologo Deryck Cooke, nel suo The Language of Music del 1959, tentò di attribuire a ogni intervallo musicale una corrispondente connotazione emotiva, formulando una sorta di dizionario emotivo degli intervalli:
Minor Second: Semitonal tension down to the tonic, in a minor context: spiritless anguish, context of finality. Major Second: As a passing note, emotionally neutral. As a whole tone tension down to the tonic in a major context, pleasurable longing. Minor Sixth: Semitonal tension down to the dominant, in a minor context: active anguish in a con- text of flux. Major Seventh: As a passing note, emotionally neutral. As a semitonal tension up to the tonic, violent longin. (p.90)
Questo tentativo di definire le funzioni espressive degli intervalli altro non è che dare un nome all`emozione suscitata in noi dalla personalità delle distanze tra suoni. Come si è detto, la percezione di questa personalità può variare a seconda del gusto musicale vigente o le preferenze personali, ma il confronto rimane imprescindibile. La distanza ci obbliga a rapportarci con il suo carattere, con attrito oppure in modo armonico.
La distanza c’è sempre, ed è il nostro dialogo con questa distanza a determinarne il valore.
*EDA ÖZBAKAY
È una traduttrice e docente turco-tedesca. Intraprende studi in musicologia negli anni di formazione in Germania, si laurea a Roma in Lingua e Letteratura Inglese e Spagnola. Per Del Vecchio Editore ha tradotto opere di Çiler Ilhan e Burhan Sönmez. Scrive di musica. Redattrice di zetaesse.
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