di SIMONA NAPOLITANO
Il 22 luglio scorso Rai3 ha trasmesso una versione ridotta del film documentario La teoria svedese dell’amore diretto da Erik Gandini regista e produttore cinematografico italiano naturalizzato svedese.
È probabile che in molti ci siamo domandati cosa voglia dire amarsi, amare se stessi e l’altro trovando il modo di vincere le dipendenze economiche, morali, ideologiche e affettive disfunzionali all’espressione di un legame autentico, scevro da condizionamenti psicologici e materiali. Secondo Lars Trägårdh e Henrik Berggren, gli storici che hanno coniato La teoria svedese dell’amore, ogni rapporto umano autentico si deve basare sulla sostanziale indipendenza delle persone. Indipendenza e autonomia caratterizzano da sempre e in maniera peculiare lo stare insieme secondo il modello nordico o svedese; tale modello cavalca e vive la terza via come scelta politica per superare il dogmatismo liberista e andare oltre l’assistenzialismo della sinistra tradizionale.
Tale assetto supporta un capitalismo di successo, e al contempo una società egualitaria, ed è basato su un sistema socio-economico di tipo socialdemocratico che intende proteggere i propri cittadini durante l'intero arco di vita, attraverso un welfare che garantisca un livello elevato di qualità della vita e di protezione sociale. Assistenza sanitaria garantita per tutti, diritto a un’istruzione gratuita, sistema previdenziale, spesa pubblica superiore alla media OCSE, bassi livelli di corruzione, politica di occupazione finalizzata al pieno impiego. Alla fine degli anni ’60, esordisce la voce del regista nel film:
In Svezia tutto andava bene, standard di vita alti, progresso, pensiero moderno. Poi venne il momento di fare un altro passo avanti per liberarci da strutture familiari antiquate che condizionavano il modo di stare insieme rendendoci dipendenti l'uno dall'altro.
Fu così che gli svedesi decisero di perseguire tale obiettivo: nel 1972 il partito socialdemocratico presentò il manifesto La famiglia del futuro. Olof Palme, primo ministro svedese e presidente del partito, disegnava un sistema socioassistenziale perfettamente organizzato che avrebbe donato a ciascuno una vita totalmente autonoma.
Lo stato svedese si proponeva di creare tutte le condizioni economiche e sociali affinché le persone stessero insieme per libera scelta e non perché spinte da un bisogno economico o morale che li legasse per il sostentamento piuttosto che per l’accrescimento personale. Si creavano così le condizioni necessarie affinché le donne non dipendessero dagli uomini e viceversa, gli anziani dai loro figli, i bambini dagli adulti. In Svezia i bambini e gli adolescenti godono di molti diritti e molta tutela sociale e le coppie vivono senza obblighi le relazioni. Come se si fosse cercato di eliminare il lato ‘invischiante’ dello stare insieme: sto con te perché dipendo da te, in qualche maniera. L’assunto è che la dipendenza psicologica, morale, affettiva possa provenire dalla dipendenza economica e di status; evitare ciò significava liberare gli svedesi dal provvedere al sostentamento dell’altro in maniera diretta: è lo Stato che si prende cura, per tutto l’arco della vita, dei suoi cittadini e crea condizioni e strutture che esaudiscano i loro bisogni, mentre questi possono impegnarsi a sviluppare ed esprimere le proprie propensioni e personalità, indipendentemente gli uni dagli altri.
Gli svedesi ci hanno provato e nell’arco dei quarant’anni successivi al manifesto del 1972, i risultati si sono visti e toccati. Il documentario ci mostra diversi spaccati della vita in Svezia: tante sono le donne che scelgono di vivere da single senza una relazione amorosa e un numero crescente preferisce l’inseminazione artificiale per avere un figlio. La banca del seme più grande del mondo, che è danese, dichiara che il 50% delle loro clienti single è di origine svedese. Al contempo molti anziani vengono scoperti morti da settimane nei loro alloggi, il puzzo del cadavere avverte i vicini che è il momento di fare qualcosa e se non conoscono il vicino, né la sua vita, né i suoi parenti (cosa che accade sempre più spesso nei condomini svedesi) si contatta un’agenzia governativa che pensa a ogni aspetto: reperire parenti o familiari, che il più delle volte sono difficili o impossibili da rintracciare, e così l’agenzia si occupa del cadavere, di estinguere i conti bancari e di liberare l’appartamento. Il documentario prosegue presentandoci Nhela Ali, una siriana che, insegnando ai rifugiati le prime nozioni della lingua svedese, spiega nel contempo la visione del mondo del paese in cui si trovano: risposte e domande brevi, un limitato contatto fisico. La regola fondamentale è mantenere le distanze, “non per razzismo ma per individualismo”.
Nel contempo alcuni giovani organizzano lunghi campeggi, fuori città e nei boschi, durante i quali possono prendersi cura gli uni degli altri e sperimentare il contatto fisico. E verso la fine Gandini ci presenta il chirurgo Erik Erichsen: emigra in Etiopia per lavorare con scarsi mezzi e nessuna burocrazia e protezione casi gravi e difficili, dopo trent’anni di carriera in Svezia.
Padre, madre, figlio/figlia, nonno/nonna, familiari, amici e partner non avvertono l’obbligo di frequentarsi se non lo desiderano, possono evitare di convivere, di telefonarsi, di parlarsi e addirittura di toccarsi. Accade che i bisogni di ognuno si possano realizzare al di là e al di sopra dei sentimenti che legano le persone le une alle altre. Gli svedesi hanno deciso, tutti insieme, di elevarsi dall’invischiamento dei sentimenti per spurarli delle conseguenze del legame non liberamente scelto. E perciò possono scegliere di frequentarsi il meno possibile, di confrontarsi e raccontarsi, di convenire e scontrarsi, anche perché le motivazioni di scontro si riducono davvero all’osso, in un paese in cui il principio di equità è culturalmente e profondamente vivo. Una comunità di individui tutti diversi che si incontrano sì, ma nei limiti entro cui il contatto non intacchi la possibilità di soddisfare i personali bisogni e non richieda di mettere da parte o al secondo posto la propria realizzazione. In una visione del mondo siffatta il concetto di sé è dato dall’autodeterminazione e passa in secondo piano la possibilità di accrescersi emotivamente attraverso il feedback ricevuto dai membri della comunità o della famiglia. In una società come quella svedese esistono tutte le condizioni per una piena espressione del sé partendo, però, dall’assunto che le relazioni personali sono desiderate e desiderabili solo se liberamente scelte; e sono liberamente scelte perché non veicolate da dipendenze dovute alla sussistenza, morale, psicologica, economica.
Insomma, il sistema nordico appare tra i più invidiabili in Europa per quanto riguarda welfare state e infrastrutture, ma quanta felicità hanno guadagnato gli svedesi attraverso un welfare siffatto? Quel che è certo è che il film di Erik Gandini è stato finanziato con le economie del governo svedese, forse per non tacere a se stesso l’emergenza di un problema, un nodo fatto di solitudini, alto tasso di suicidi, scarso ripopolamento autoctono, richiesta imperante di facilitare i flussi migratori per rinfoltire la popolazione svedese. Se nel manifesto del 1972 del partito socialdemocratico la premessa era perfezionare il welfare per scardinare la tradizionale struttura dello stare insieme onde evitare dipendenze e aumentare il senso di soddisfazione e felicità, la raggiunta indipendenza affettiva ha avuto le sue conseguenze. Di certo una donna svedese può con tranquillità scegliere di fecondarsi da sola in casa, valutando il ‘padre genetico’ evitando il contatto con esso, e può economicamente permettersi di crescere i suoi figli da sola, mentre un anziano signore nella porta accanto è morto da due settimane e il suo cadavere ‘si fa sentire’ dai vicini più di quanto si sia fatto sentire in vita.
La fiducia nell’altro da sé e la cura dell’altro viene completamente affidata alle istituzioni che prontamente provvedono a sistemare le cose, eppure gli svedesi sono preoccupati: questa eterogestione statale delle incombenze familiari e relazionali non ha portato né alla felicità, né alla diminuzione della solitudine anzi ne ha incentivato l’incremento.
Il dizionario Treccani spiega la fiducia attraverso questa definizione:
fidùcia s. f. [dal lat. fiducia, der. di fidĕre «fidare, confidare»] (pl., raro, -cie). – Atteggiamento, verso altri o verso sé stessi, che risulta da una valutazione positiva di fatti, circostanze, relazioni, per cui si confida nelle altrui o proprie possibilità, e che generalmente produce un sentimento di sicurezza e tranquillità.
Gandini sembra delineare come e quanto gli svedesi (e nelle sue preoccupazioni accenna al pericolo visibile in tutti gli individualismi nel mondo) abbiano fiducia in se stessi e nelle loro istituzioni, e di come abbiano egregiamente e paradossalmente assottigliato la fiducia nelle relazioni personali in quanto invischianti e limitanti (col vicino, col padre e la madre, con i fratelli, con il partner) in nome dell’espressione di sé come individui senza comunità.
È apparso su CORDIS, il principale portale della Commissione europea per i risultati dei progetti di ricerca finanziati dall’UE, un articolo su Il modello sociale nordico: basato sul paradosso, la cui fonte è il Consiglio norvegese per la ricerca:
Può un campione del sistema capitalistico dispensare welfare ai cittadini? Può una società ricca abbracciare il principio di uguaglianza? Può il collettivismo prosperare dove regna l´individualismo? Ma certo. I paesi nordici sembrano aver trovato il modo per riuscirci. Secondo una recente ricerca, questa capacità di conciliare concetti potenzialmente in conflitto tra loro è alla base del loro successo economico. Lo studio, finanziato dal Consiglio norvegese della ricerca (Rcn) e presentato il 24 febbraio 2011, ha consentito a 10 ricercatori nordici di diversa estrazione scientifica di valutare il modello nordico come una forma alternativa di capitalismo, prosperità e benessere sociale. […]Oltre a un forte impegno per l´equità, i ricercatori rilevano un forte senso di solidarietà, rafforzato, piuttosto che eroso, da una marcata tendenza verso l´individualismo. “Nei paesi nordici - afferma Lars Trägårdh, professore presso l’Ersta Sköndal University College di Stoccolma (Svezia) - molte persone sono in grado di liberarsi sia dalla famiglia che dalla comunità locale che li circonda. Siamo diventati individualisti. Questo ha avuto un significato enorme, non da ultimo per l’emancipazione delle donne. Le strutture patriarcali deboli e una ridotta dipendenza dagli altri, offrono a molte persone dei paesi nordici la sensazione di controllare la propria vita.”
Nelle definizione di individuo autonomo, di benessere sociale, solidarietà, il modello nordico non accenna alla sostenibilità emotiva, all’educazione ai sentimenti, alla condivisione emozionale come base e valore per la sopravvivenza emotiva stessa. La vita è controllabile e le relazioni vengono gestite perlopiù evitandole tant’è che “Le strutture patriarcali deboli e una ridotta dipendenza dagli altri, offrono a molte persone dei paesi nordici la sensazione di controllare la propria vita”, dice il professor Lars Trägårdh, il coniatore de La teoria svedese dell’amore che - nel film di Gandini - colloca la Svezia nel punto più alto e più avanzato di una scala di valori e spiega che nei paesi poveri ci si preoccupa di sopravvivere, mentre nei paesi ricchi ci si può permettere di realizzare la propria persona.
In coda al documentario, come un monito, Gandini propone le riflessioni del filosofo e sociologo polacco Zygmunt Bauman.
La felicità non viene da una vita senza problemi, ma dal superamento delle difficoltà. L'indipendenza non è la felicità; alla fine porta ad una completa, assoluta, inimmaginabile noia.
Le relazioni personali e intime sono un rischio necessario alla sopravvivenza emotiva e anche in Svezia l’uomo resta pur sempre un animale sociale. Il punto è che di certo non bisogna tornare alla povertà o alla diseguaglianza per problematizzare la vita ma, senza abbandonare la via dello sviluppo dell’autonomia individuale, l’avviso è di lavorare sulla positività della complessità emotiva (che si sviluppa attraverso lo stare insieme) proprio come scoperta e mantenimento di un individualismo per la vita e non per la solitudine; solitudine che dovrà essere intesa come momento o periodo di riflessività e non come condizione necessaria e sufficiente per lo sviluppo dell’individuo.
Il paradosso è compiuto: la teoria dell’indipendenza e il mito dell’autosufficienza sono molto radicati nella cultura svedese. Erik Gandini documenta le pieghe di questo pensiero, e dichiara il pericolo di un’ossessione per l’autosufficienza. Se la teoria dell’indipendenza e dell’equità ha funzionato senza fare una grinza, nel suo assunto di partenza di creare le condizioni necessarie affinché si potesse essere indipendenti gli uni dagli altri così da sperimentare delle relazioni umane davvero autentiche e libere da ogni forma di dipendenza, l’ossessione per l’indipendenza ha portato a conseguenze inaspettate all’interno di una diffusa e radicata convinzione che le relazioni umane debbano in primo luogo basarsi sull’essere liberi gli uni dagli altri, nella prospettiva sempre più praticata di fare a meno gli uni degli altri.
VISIONI CONSIGLIATE
*SIMONA NAPOLITANO
Nasce a Torre del Greco nel 1982. Laureata in filosofia, ama gli abiti e vestire le persone; sarta e stilista, esperta di trame di tessuti e libri, scrive per passione e conserva tutto in un cassetto.
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