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The bat effect

di LAURA MIGLIANO



Zetaesse. Laura Migliano. La realtà che viviamo pone numerose questioni sull’interazione con dispositivi tecnologici a rilascio diretto di dati. Può un virus nell’antropocene stravolgere il nostro stile di vita?
© Joana Avillez

"Può, il batter d'ali di una farfalla in Brasile, provocare un tornado in Texas?" è il titolo di una conferenza tenuta da Edward Norton Lorenz nel 1972, nella quale riportava i risultati delle sue ricerche, svolte a partire dal 1962, che avevano come oggetto lo sviluppo di modelli meteorologici per la previsione dei fenomeni atmosferici: Lorenz notò (e prima di lui il solito Turing) come un cambiamento impercettibile delle condizioni di partenza in un sistema dato possa far scaturire modificazioni rilevanti del risultato finale nel lungo termine. Questa espressione, nota sotto il nome di Butterfly Effect, altro non è che l’immagine divulgativa di ciò che in matematica e fisica è la dipendenza sensibile alle condizioni iniziali nella cosiddetta Teoria del caos, la cui paternità la si deve allo stesso Lorenz, sulla base di studi pregressi formalizzati dai matematici Joseph-Louis Lagrange e Henri Poincaré.

Nelle prime ipotesi di Lorenz, le ali erano quelle di un gabbiano, diventate poi di farfalla per ragioni poetiche o di somiglianza con la forma dei diagrammi dei suoi famosi attrattori; poco verosimilmente avrebbe potuto immaginare che questo effetto si manifestasse in tutta la sua portata mainstream in ambito biologico, a causa di un pipistrello, per di più inerme. Tutto ciò ha poco o nulla di poetico, eppure, senza scomodare leggi di fisica che nulla hanno a che fare con la logica degli avvenimenti, ciò che resta è proprio il carattere evocativo del celebre effetto farfalla: una piccolissima, accidentale, mutazione genetica di un coronavirus che vive nei pipistrelli ha causato una variazione epocale dello stile di vita umano nell’intero globo terrestre. Lungi dal discernere su ragioni di natura medica o sulle cause fisiologiche di tale mutazione, il main focus di queste righe si concentra sul carattere socio-culturale che questo fenomeno trascina con sé.

Se da un lato, la teoria del caos insegna a non sottovalutare il minuscolo dato iniziale quale causa di cambiamenti colossali, dall’altro, ma in modo adiacente, la teoria della complessità ci illumina riguardo al carattere omeostatico dei cambiamenti accidentali in un sistema complesso.



Un sistema complesso è un sistema multivello le cui spiegazioni abbandonano il concetto di linearità dei sistemi dinamici, tanto caro alla fisica classica: un sistema è lineare quando le sue parti possono essere esaminate e studiate in modo indipendente l’una dall’altra; quando cioè non vi sono interazioni di dipendenza tra le parti elementari di cui il sistema si compone. Quando, al contrario, il sistema risponde in modo direttamente proporzionale alle sollecitazioni ricevute anche solo su uno degli elementi di cui esso è formato, allora si parla di non-linearità di sistemi complessi. Va da sé che in natura, così come in ogni altro ambito del sapere emerso, quasi tutti i fenomeni sottostanno alle leggi della complessità e dunque della non-linearità. A questo punto è utile chiarire come mai, stante così le cose, in natura non regni il caos totale (inteso non in termini fisici ma discorsivi), se alla minima sollecitazione tutto potrebbe mutare. È a questo punto che il concetto di omeostasi ci viene in soccorso: quasi tutti i sistemi naturali tendono alla conservazione e all’autoregolazione. Perciò, quando il cambiamento di un fattore non è tale da provocare sconvolgimenti strutturali del sistema, il sistema tenderà sempre alla stabilità.

Questo processo non è valido solo in fisiologia, biologia, fisica o matematica; ad oggi si riscontrano segnali di somiglianza anche nelle scienze umane, ampliando ciò che Edgar Morin aveva predetto nella sua epistemologia della complessità, o ciò che Gregory Bateson definiva Teoria dei sistemi.

Cosa ha a che fare tutto ciò con il concetto di stormo? Uno stormo di uccelli segue esattamente questo principio, che nello specifico è detto comportamento emergente. Un comportamento è emergente quando, all’interno di un sistema complesso, un’interazione tra agenti, o enti, del sistema, genera fenomeni non predicibili dal comportamento del sistema stesso. In altre parole, quando a un’interazione tra le parti segue un comportamento sistemico non giustificabile o deducibile se si considera al microscopio il “naturale” comportamento di quell’ente. Nel caso dello stormo, ma lo stesso vale per i banchi di pesci o per le colonie di formiche (per citare quelli più famosi), il movimento uniforme e armonioso dello stormo nel suo insieme non è desumibile dalle leggi che governano il volo di un singolo uccello. È ancora più chiaro se si considerano le sinapsi: un neurone di per sé ha un funzionamento molto elementare, può essere acceso o spento. Tuttavia quello che accade nel momento in cui due o più neuroni interagiscono tra loro è qualcosa di stupefacente sul piano della complessità. E questo è ciò che si può osservare anche nelle interazioni umane.


Zetaesse. Laura Migliano. La realtà che viviamo pone numerose questioni sull’interazione con dispositivi tecnologici a rilascio diretto di dati. Può un virus nell’antropocene stravolgere il nostro stile di vita?

Questo universo olistico di enti dipendenti e interconnessi tra loro, di fenomeni ed epifenomeni magici e fluidi, non sarebbe stato possibile metterlo in evidenza e studiarlo in modo approfondito senza l’invenzione del computer. Alla base di questi studi vi sono processi di simulazione sofisticatissimi, che non si sarebbero potuti osservare senza l’impiego di potenti calcolatori in grado di imitare e renderizzare comportamenti che altrimenti non sarebbe stato possibile ricreare.

A questo punto, corre d’obbligo richiamare una questione avanzata da Deleuze nei suoi studi riguardo il dispositivo: un dispositivo è un medium (di qualsiasi natura sia: architettonico, tecnico o tecnologico) che si frappone tra la conoscenza umana in un dato periodo storico e la sua possibilità di evolvere e mutare in altro. Soprattutto, un dispositivo non è il frutto di ricerche tecniche scevre dal contesto socio-culturale nel quale viene formalizzato, ma anzi è strettamente legato all’umore storico di quel contesto. Non è l’invenzione del computer che ha permesso lo sviluppo della Teoria del caos, ma al contrario, gli studi pregressi a riguardo e l’andamento culturale di quegli anni hanno portato allo sviluppo di teorie informatiche che coadiuvassero l’elaborazione di ipotesi concettuali. La macchina di Turing è stata sviluppata con uno scopo ben preciso, che la disposizione politica di allora rendeva necessaria. La disposizione crea il dispositivo, e non il contrario.

Ancora, in che modo tutto ciò può essere legato allo stormo? Il modo in cui oggi gli esseri umani pensano, agiscono, si aggregano, si sdoppiano, si accoppiano, è intimamente connesso ai dispositivi che utilizzano. E questo modus è quantitativamente e qualitativamente prevedibile e classificabile. Se fino a qualche decade fa, ciò che valeva per stormi, banchi, colonie, pattern e altre formazioni organiche era scientificamente osservabile e prevedibile e non assimilabile al comportamento umano, quello che è accaduto, da un (in)certo periodo in poi, è che i dispositivi hanno reso possibile assimilare dati che svelano moltissime cose riguardo agli esseri umani: tra cui i comportamenti emergenti e omeostatici relativi alle nostre azioni on e off line. E, come ribadito precedentemente, tali emergenze non sono il frutto di dispositivi piovuti dal cielo all’improvviso, ma sono i comportamenti umani in stormo che di volta in volta evolvono, in modo accidentale o intenzionale, a “domandare” nuovi dispositivi e a svelare nuove emergenze.



Il momento storico che stiamo attraversando, che lo si voglia chiamare antropocene o in qualsiasi altro modo, è l’humus perfetto a che nascano di continuo nuove emergenze, che man mano tendono all’omeostasi. L’attuale omeostasi umana è il gregge, l’uno e lo zero, il cis e il trans, l’a favore e il contro, senza soluzione dialettica e con buona pace della speculazione attiva.

La radicalizzazione delle posizioni e la polarizzazione delle visioni annullano l’immaginazione. Non solo, questo dovizioso banchetto di continue portate in forma di sharing è il convito perfetto per predatori invisibili, che indennizzano l’utente con sempre nuovi dispositivi: applicazioni che rilevano i nostri movimenti e i nostri contatti (in termini di spazio/tempo), scanner metropolitani che tracciano i nostri spostamenti, dati medici sensibili utilizzati per monitorare i nostri comportamenti, smart object, IOT, domotica, tutto a servizio di archivi e server titanici i quali, grazie alle pratiche quotidiane di sousvelliance, registrano, accumulano, processano, quantità di dati abnormi a disposizione di panopticon senza sbarre e cemento. Dati, o meglio big data, che finiscono nella pancia di super processori che attraverso AI, deep e machine learning, restituiscono proiezioni estremamente attendibili di ciò che saranno i bisogni e i desideri degli individui. È il capitalismo della sorveglianza, per usare la definizione di Shoshana Zuboff.

Qui non si tratta di idiozie del tipo “dittatura sanitaria” o “museruola”. Questo è guardare il dito e non la luna, questo è il gregge. Ciò di cui si ha necessità sono occhi di pipistrello, che fendano il buio attraverso visioni luminose: parole che informino e facciano riflettere soprattutto sul grado di evoluzione raggiunta dall’essere umano e su cosa sia questa materia oscura che è il postumano.

Evoluzione che è “evoluzioni” – del capitalismo, delle interazioni umane, della soggettività, dell’identità, dell’oggettività. Evoluzioni che sono il frutto della presente disposizione storica, che noi tutti contribuiamo a mettere in atto, e che rappresentano i presupposti per lo sviluppo di ulteriori dispositivi in futuro. Dispositivi che avranno sempre meno l’aspetto di medium e sempre più quello di prolungamenti del corpo, in un’epica cyborg di matrice capitalista, il cui atto di nascita si può far risalire allo spot “1984” per il lancio dell’Apple Macintosh, diretto da Ridley Scott, attraverso cui Steve Jobs sancisce la fine dei media classici.



Embodiment and embeddedness sono le insegne luminose lungo questo tragitto, a partire da quella data: tragitto che si biforca e che da un lato mantiene la rotta del paradigma cognitivista attualmente dominante, che afferma che i sistemi cognitivi sono essenzialmente sistemi di rappresentazione computazionale, e dall’altro imbocca la via della cosiddetta filosofia del corpo, o cognizione incorporata (meglio nell’originale inglese EEC: Embodied embedded cognition), che concepisce la mente umana non come un software che vede il mondo come suo terreno di gioco (posizione cognitivista), ma che intende cervello, corpo e mondo come fattori egualmente importanti nella spiegazione di come si verificano particolari comportamenti intelligenti (o emergenti). Muovendo dal concetto di praktognosia di Merleau Ponty, tale concezione incorpora la mente in una semiosfera per la creazione dell’umwelt umano.

È evidente che, in questa accezione, le modifiche tecnologiche che agiscono sul corpo e inevitabilmente rimodellano la mente, interrogano altresì il nostro rapporto col mondo. È da questo ciclo di interazioni che probabilmente dipenderà il nostro futuro su questo pianeta: svincolare l’ambiente, gli oggetti e gli iperoggetti dal nostro sguardo gamificato e riportarlo su un piano ontologico. Che non significa smettere di giocare, ma conoscere a fondo le regole del gioco. Un gioco della vita che rischia di soppiantare la vita – degli esseri umani -, almeno per come la si è intesa fino a oggi.





*LAURA MIGLIANO

Laura Migliano è artista e articolista per diverse riviste di cultura contemporanea. Ha scritto per D’Ars Magazine, Shedonism, L’aperitivo Illustrato, Face Magazine, Il Quorum, To Be Pop, Drew Magazine. È co-fondatrice di Calembour, progetto di new media art, nato nel 2014. La sua ricerca si concentra sul rapporto tra l’essere umano, la tecnologia e la scienza.


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